Non è un congresso come gli altri. I primi a saperlo sono i seicento delegati dei quasi 5mila fra circoli e case del popolo affiliate all’Arci in tutto il paese. Donne e uomini di ogni età, con una prevalenza di under 40, chiamati a decidere non certo sul leader di turno, sulla figura «salvifica» che non è mai stata nelle corde della più grande realtà associativa italiana. Le candidature di Francesca Chiavacci e Filippo Miraglia riflettono piuttosto due visioni diverse di come debba essere organizzata l’Arci nella sua multiforme azione quotidiana. E quelle che all’esterno possono apparire poco più che sfumature, assumono però un altro spessore nelle pratiche di un mondo talmente vasto e sfaccettato che anche i numeri – 1.115.000 soci, 4867 circoli, 116 comitati provinciali e 17 comitati regionali – non riescono a illustrare compiutamente.

Se i timori della vigilia paventavano uno scontro congressuale aperto fra i due candidati e i loro sostenitori, la giornata d’esordio si chiude invece sotto un segno ben diverso. Con tutta evidenza, sia Chiavacchi che Miraglia tengono ben presente una delle tante lucide osservazioni di Tom Benetollo: «Le diversità sono ricchezze». Così le preoccupazioni su un un ipotetico abbandono dell’associazione, da parte del candidato che risulterà sconfitto al congresso, si attenuano con il passare delle ore. Il primo ad esserne contento sarebbe Paolo Beni, presidente uscente che, anche nella sua relazione finale, tiene ferma la barra di una gestione plurale all’interno di un progetto condiviso. «Guai se usassimo queste differenze in una logica di divisione – avverte Beni – un gruppo dirigente responsabile deve lavorare in un’Arci in cui le diverse sensibilità si riconoscono in un progetto comune».

Certo, come sempre accade in ogni organizzazione complessa – e l’Arci è, per sua stessa natura, straordinariamente complessa – la «macchina» ha periodicamente bisogno di una revisione. «Innovazioni necessarie – puntualizza Beni – a rendere più omogenea e funzionale l’azione dei vari livelli dell’associazione. Una messa a punto orientata ai bisogni dei circoli, che chiedono servizi e progetti per rafforzare e qualificare la loro presenza sui territori, leggere i mutamenti sociali, e adeguare le loro attività ai nuovi bisogni». Su tutto, negli anni della crisi più violenta dal secondo dopoguerra, c’è la necessità di restare presidio, democratico e antifascista, di una socialità messa a dura prova dalle terribili stagioni di un’austerity tanto violenta quanto, per molti versi, immotivata.

«Un modello organizzativo lo abbiamo – scandisce Beni – e io penso che quel modello, sia pur senza stravolgimenti, vada però migliorato per superare l’eccessiva frammentazione, e valorizzare di più il protagonismo dei territori». Di qui però arriva un avvertimento al futuro gruppo dirigente dell’Arci: «Dobbiamo garantire che quanto stabilito in teoria sia attuato nella pratica. Perché ce lo vogliamo dire che non va bene continuare a scrivere documenti sulle regole, e poi ciascuno fa come gli pare? Attribuire ai comitati funzioni definite essenziali, e poi chiudere gli occhi di fronte al fatto che non sono in grado di svolgerle?».

Anche da queste osservazioni risalta in controluce il più importante nodo da sciogliere in questo congresso. Con una discussione, auspica Beni, nel solco di una antica, solida tradizione che continua a vedere i circoli e le case del popolo come spazio di confronto per le diverse sensibilità della sinistra italiana. Non per caso, nell’antico palazzo Re Enzo che nel cuore di Bologna domina la splendida piazza del Nettuno, arrivano in video i saluti di Laura Boldrini e di Stefano Rodotà. Mentre, fra gli altri, Nichi Vendola e il presidente di Banca popolare etica Ugo Biggeri sono qui di persona. A testimonianza che l’Arci, se non ci fosse, dovrebbero inventarla.