Henri-Edmond Cross, “Côte provençale…”, 1906-’7, Douai, musée de la Chartreuse

 

Georges Seurat, “Torse d’homme nu près d’un chevalet”, 1882-’83, collezione privata

 

Signac, il san Paolo del Neoimpressionismo come lo definì Thadée Natanson, è stato anche un superbo collezionista. Glielo permetteva il discreto agio della condizione familiare: figlio di un facoltoso mercante di articoli in pelle.
Questo degli artisti moderni cui piace contrassegnare le proprie pareti è un capitolo speciale della storia del collezionismo, non del tutto sondato e certo meritevole di una ricerca completa, che potrebbe dar luogo a un libro affascinante: immaginiamolo scritto da Francis Haskell. Riguardo all’arte francese, si sono succedute, a partire dagli anni novanta, una serie di mostre sui casi maggiori: Monet, Degas, Picasso, Van Gogh. Adesso è la volta di Signac, alla cui raccolta, fino al 13 febbraio, dedica un’esposizione il Musée d’Orsay, per le cure di Marina Ferretti Bouquillon, grande esperta di Neoimpressionismo, e della pronipote dell’artista, Charlotte Hellman, responsabile degli archivi Signac e figlia di Françoise Cachin, che del d’Orsay fu la prima direttrice.
Viene ricostruito, nei limiti del possibile, un insieme oggi smembrato in tutto il mondo, musei e privati; e che ebbe a subire, Signac in vita, le conseguenze logistiche (case, denari, in mezzo la Grande Guerra) di un agitato romanzo familiare, che vide l’artista contendersi fra due donne, la moglie Berthe e la più giovane Jeanne Selmersheim-Desgrange, pittrice, con la prima che accetterà di adottare, insieme al marito, la figlia che questi, già cinquantenne, ha avuto dalla seconda: Ginette.
Ci si è potuti avvalere dell’inventario dei beni mobili di Signac, steso subito dopo la morte, 1935, e di un’agenda di quattro anni prima, in cui egli enumera una parte delle sue opere; poi del gremito e focoso Journal – che in questa occasione, edito dalla Hellman, viene pubblicato integralmente da Gallimard / Musée d’Orsay (pp. 613, euro 26,00) – e dello scambio epistolare con Félix Fénéon, la cui penna affilata e laconica aveva accompagnato e promosso il nascere del pointillisme e che, responsabile di arte moderna da Bernheim-Jeune, fu, dal 1906, il marchand preferito dell’amico Signac, di cui aveva firmato del resto, nel 1890, il primo profilo critico in assoluto.
Artisti collezionisti: varie le fattispecie. Il caso Matisse, messo a fuoco nel 2015 da Claudine Grammont, è forse quello che meglio illumina, per differenza, le implicazioni affettive alla base dell’avventuroso progetto collezionistico di Signac. La scena madre si svolge nel 1899 da Vollard, dove il giovane squattrinato Matisse intende acquistare, come ha raccontato a Pierre Courthion, Les Alyscamps di van Gogh: Vollard scompare per andare a prendere la tela, e nel frattempo Matisse è attirato da «un Cézanne di circa 50×50, delle donne in un paesaggio», Trois baigneuses: «Quando Vollard torna, Les Alyscamps mi sembrano al confronto solo una stampa». Non compera il van Gogh, ma nei giorni successivi il Cézanne agisce, lo vede sempre: «i colori della carne nel verde della vegetazione, la proporzione della mano della donna in piedi a sinistra in rapporto alla totalità della tela». Compera il Cézanne, che donerà nel 1936 al Petit Palais: «esso mi ha sostenuto moralmente nei momenti critici del mio processo artistico; vi ho attinto fede e perserveranza», confessa in quest’occasione.
Se anche per Signac collezionista Cézanne fu un nome decisivo – Auvers-sur-Oise, circa 1880, era stato il primo dei suoi acquisti, nella bottega di père Tanguy: era il 1884, aveva ventun’anni! –, esso sembra rappresentare, più che lo sprone creativo testimoniato da Matisse, l’iniziale, sontuoso numero di una raccolta che conterà, alla fine, più di quattrocento opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e le terrecotte fauves di André Metthey: una raccolta prepotentemente segnata da una linea di gusto, il colore diviso dei Neoimpressionisti, cui Signac contribuì in parallelo, e da figura-snodo, quale produttore. Senza esagerare, si vuol dire che in Signac prevale, rispetto a Matisse, il momento ideologico: per lui collezionare significa più che altro testimoniare una fede, il mélange optique; implica la stessa urgenza che lo spinse a scrivere, identificando una precisa lignée coloristica, il trattato D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme (1899, apparso per le edizioni de «La Revue blanche»).
Il manifesto della raccolta Signac è una stanza, la salle à manger della villa La Hune a Saint-Tropez, al cui allestimento, nel 1905, il pittore dedicò un’attenzione maniacale. Accogliendovi Luxe, calme et volupté, che Matisse aveva dipinto a Parigi, dividendo i toni, subito dopo il soggiorno in Costa Azzurra près de chez lui, e mettendo in dialogo questa tela con L’Air du soir di Henri-Edmond Cross, con una marina di Louis Valtat a svirgolature selvagge di colore puro, con un «fregio» di disegni di Seurat, Signac sembra dare il benvenuto fra i neoimpressionisti a un nuovo adepto, di cui ha subito riconosciuto le qualità: ma per Matisse il pontillisme rappresentava solo uno stadio di accrescimento, come si vide subito, nello stesso 1905, al Salon d’Automne con la fatidica cage aux fauves. Storicamente la sala da pranzo mediterranea di Signac documenta così, ad altissimo livello, il passaggio di testimone generazionale e la funzione liberatoria del cromo-luminarismo per le nuove avanguardie – ai loro esordi, ricordiamolo, quasi tutti i fauves e i cubisti sacrificarono alla divisione.
Anche nel diario (1894-1909, con le appendici 1915 e 1932-’33) il Signac ideologo la fa da padrone, i suoi resoconti dei Salon e delle mostre in galleria discriminano nettamente, con giudizi senza appello verso non solo l’area simbolista, ma anche tutte quelle espressioni deviazioniste, di compromesso, che sfigurano il verbo genuino degli impressionisti e dei neos. Allergico ai mercanti, rifiuta decisamente, per esempio, che Paul Durand-Ruel speculi sull’impressionismo, di cui era stato il promotore mondano, costruendo quelle che giudica repliche a produzione seriale: Moret, Maufra, Loiseau, lo stesso d’Espagnat, su cui pure egli riporrebbe speranze, intriso com’è di amore per Delacroix – capitolo, questo del Durand-Ruel post-impressionista, recentemente sondato in un’interessante mostra alla Proprieté Caillebotte di Yerres.
Seurat e Cross: le stelle della collezione Signac. Di Seurat, fra abbozzi radiosi, un nucleo sensazionale dei disegni nero-luce e dipinti finiti (due), si contano ottanta opere, compresi i vari passaggi. La più importante è Le Cirque, acquistata nel 1900 dalla famiglia e rivenduta dolorosamente a John Quinn, il magnate americano, nel 1923, con la clausola che alla sua morte l’avrebbe donata al Louvre, ciò che avvenne… l’anno dopo: è il primo dipinto di Seurat a entrare nel patrimonio di Francia! L’intimità del loro sodalizio a puntini, troncato dalla morte precoce dell’ascetico mèntore, impregnerà sino alla fine la vita di Signac, un romanzo nel romanzo di cui la collezione testimonia nel modo più toccante. Idem per Cross, l’amico mediterraneo, colui che da Cabasson aveva attirato Signac nel Midi: scomparso anch’egli troppo presto, nel 1910. I suoi «gioiosi assemblaggi di gemme» (definizione dello stesso Cross per i lavori di Signac) stabiliscono, più di tutto il resto, l’esprit decorativo della collezione, luccicano nella sala da pranzo dell’appartamento parigino di 14, rue de l’Abbaye, che Paul – era il ’25 – volle ridipingere in giallo «bouton d’or». Furono oggetto, più che con gli altri contemporanei, della fruttuosa pratica dello scambio.
I neoimpressionisti minori ci sono quasi tutti: Charles Angrand, Maximilien Luce, Théo Van Rysselberghe, Louis Hayet. Perché manca una figura originale, di sapore stendhaliano, come il pittore-comandante, amato da Seurat, Albert Dubois-Pillet, uno dei fondatori, nel 1884 (accanto allo stesso Signac), della Societé des Artistes Indépendants? Neanche è mai citato nel Journal. Luce, che nel 1899 ritrae Signac punteggiando nel modo più incondizionato, fu per lui il fidatissimo ainé, con cui ebbe a condividere, insieme a Fénéon, oltre al triste compito di liquidare l’atelier di Seurat, l’adesione agli ideali anarchici, che egli portò nei suoi quadri, soprattutto a partire dalla scoperta, in Belgio, nel 1895, della vita negletta dei minatori: evenienza che accelerò la sua rinuncia alla divisione e al contrasto, perdonata, eccezionalmente, da Signac, il quale anzi accoglierà nella collezione l’eroico abbozzo operaio Le Drapeau rouge. Ma per lo stesso motivo non perdonò invece Van Rysselberghe, altro amico della prima ora, nel circolo dei XX di Bruxelles: a partire dal 1897, note e lettere contro il tradimento estetico di colui che, un anno prima, ancora nel solco divisionista, lo aveva immortalato lupo di mare, alla barra del suo bateau l’Olympia.
Se resta, di base, un artista dell’Ottocento, insensibile al cubismo, Signac, che fu determinante per Matisse, si apre alla novità dei fauves con acquisti o scambi mirati: Valtat, Marquet, Puy, van Dongen (il ritratto quasi Die Brücke della soprano Modjesko!), Camoin. È normale che fra i giovani predilega chi ha fatto del colore sintesi e costruzione: l’à plat deriva in qualche misura dalle «macchie prismatiche».

Risulta più stimolante pedinare Signac nelle diversioni di gusto, più o meno circospette: il disprezzo verso i Nabis, che sente forse troppo dipendenti dall’odiatissimo Gauguin, non gli impedisce, a un certo punto, di accogliere alle pareti Bonnard, Roussel, Vuillard, lo stesso cattolicissimo Denis. Il preferito è Vuillard, di cui, curiosamente, sceglie un Nudo, circa 1900, ancora tutto intriso di intimismo fin-de-siécle. In una pagina di diario del dicembre 1898 si rammaricò di non aver compreso la grandezza del nabi zouave, ma quanto questo mea culpa non dipendesse ora dalla comune adesione dreyfusarda è difficile dire. A contrario, si disfa per ripicca di un meraviglioso pastello dell’antisemita Degas. Perché nella collezione di un passionale come Signac pesano anche motivi altri, di carattere, e politico, e personale.
È tuttavia nei valori formali che Signac, nemico giurato dei simbolisti, apprezza i padri del simbolismo Redon e Puvis de Chavannes. Strano che di Puvis, campione di ricorrenze nel Journal, non possedette nemmeno un disegno: quell’Arcadia in linee euritmiche e tinte gessose era trascorsa, attraverso l’enorme apprezzamento di Seurat, negli aspetti dinamogenici, a lui specialmente cari, del Neoimpressionismo. E che dire del glorioso Centauro a carboncino di Redon, che fa da controcanto visionario nell’insieme della collezione? Perché il tetragono ‘naturalista’ Signac e l’alfiere di sogni Redon potevano incontrarsi nella formula di quest’ultimo «c’è idea letteraria ogni volta che manca invenzione plastica».
Pissarro, Manet (solo una piccola china), Degas, Cézanne, Monet, Van Gogh (Deux harengs, 1889), Guillaumin, Renoir: a parte Redon, i maestri della generazione precedente sono tutti in linea, chi più chi meno, con le convinzioni teoriche di Signac. In particolare Monet, che nel 1880, in mostra alla galleria de la Vie moderne, lo aveva determinato a dipingere: a diciassette anni. Ma solo all’inizio degli anni trenta, tramonto di vita, si decise ad acquistarne due opere: un ritardo dovuto ai prezzi raggiunti da Monet? Forse. Delle due tele da lui scelte, Pommier en fleur…, proprio dell’80, con il suo «tocco denso, diviso», il suo «effetto di “all over” vegetale» (Sylvie Patry), illustra, meglio non si potrebbe, l’ascendente sul pointillisme, l’anello di congiunzione, diremmo, fra Delacroix e Seurat.
Quanto ai nonni, a parte l’adorato Delacroix (tre disegni, di cui solo uno identificato), non mancano i ‘precedenti’ dell’Impressionismo, Boudin e Jongkind, del quale ultimo Signac possedette, orgogliosamente, un corpus strepitoso di acquarelli, acquistati soprattutto negli anni venti, da Durand-Ruel ma anche a Grenoble, dove il maestro olandese era morto pazzo. Nel caso di Jongkind la presenza in collezione è operativa, stimola Signac (che gli dedicò una monografia, 1927) nell’attività scintillante di pittore ad acqua per i porti di Francia, «aquarelliste-trotteur», come si definiva. Ed è uno dei nomi che ricorda John Rewald dei suoi incontri da ragazzo, sul filo del tempo, con il vecchio Signac, che amava «parlare degli altri, di quelli che ammirava, Jongkind, Seurat e Cross, così come Stendhal e Fénéon».