Ne Il regno, uno dei più bei libri di Emmanuel Carrère, lo scrittore affronta di petto una storia – anzi, la Storia, par excellence: come e da chi sono stati scritti i Vangeli? Le dinamiche che portarono il Cristianesimo da setta minoritaria, al margine geografico politico e culturale della romanità, a divenire religione dell’Impero passarono anche, e forse soprattutto, attraverso quelle dinamiche di appropriazione, (ri-)definizione e trasmissione che costituirono la «scrittura della tradizione». «Leggendo uno storico, qualunque sia la sua posizione, si capisce in che modo sta cucinando la sua storia e dietro il sapore della salsa si distinguono gli ingredienti che ci ha messo dentro».
Questa frase mi è tornata alla mente più volte durante la lettura dell’ultimo, bellissimo libro che Salvatore Settis ha pubblicato per i tipi di Feltrinelli, Incursioni Arte contemporanea e tradizione (pp. 368, € 30,00). Attraverso i dieci capitoli del volume, che sono altrettanti affondi monografici su alcuni artisti e sulle loro riletture e appropriazioni – in modo più o meno dichiarato, più o meno palese, ma sempre accortissimo – della «tradizione». A definire in che modo vada inteso il concetto, di questi tempi spinoso, sta l’introduzione in cui Settis traccia i fili che, di fatto, faranno da cornice al resto dei saggi. Apparsi in occasioni diverse nell’arco degli anni Duemila (tranne il terzo capitolo dedicato al Rito di Ingmar Bergman, che era un testo rimasto incompiuto e risalente al 1974), i saggi compongono però un affresco coerente, tenuto assieme da un impianto saldissimo.
E quindi, come si definisce la tradizione per Settis? Tradizione nel senso di ciò che, nel tempo, viene traghettato oltre l’epoca di partenza per approdare a nuovi momenti, a nuovi orizzonti che, nel caso delle opere d’arte, saranno formali e di senso. A numi tutelari dei saggi si ergono due giganti come Julius von Schlosser e Aby Warburg. Entrambi hanno infatti elaborato due idee di «tradizione», che in parte si sovrappongono e si compenetrano, contribuendo a definirsi a vicenda. È dunque sotto la loro egida che, addentrandosi nelle pagine del volume, è possibile cogliere i diversi modi in cui gli artisti hanno declinato temi e problemi al centro delle loro ricerche.
Non è certo una novità che le presunte cesure dell’arte contemporanea siano in realtà molto più di facciata che non di sostanza. Quello che è nuovo, invece, e che il libro aiuta a cogliere appieno, sono le trame e i fili mai recisi che questi linguaggi e forme artistici hanno stabilito con il passato. Certo, un richiamo che non è quasi mai banale prelievo, che diviene più spesso allusione, come attraverso un gioco di specchi, che contribuisce a distanziare e camuffare il punto di partenza. Ma spesso non è un camouflage intenzionale, tutt’altro. È un riaffacciarsi di formule sedimentate nel tempo, che un artista, con lo sguardo reso acuto dall’osservare le forme, a volte possiede di già e riesce a estrapolare dalla sequenza della trasmissione (o, per l’appunto, della tradizione).
A questo formulario di forme e di gesti Warburg diede, è ben noto, il nome di Pathosformeln, cioè «formule di pathos». Molti sono gli esempi che Settis porta all’attenzione in questi saggi su come le Pathosformeln agiscano. L’esempio migliore per comprendere questo dispositivo è forse l’analisi (nel secondo capitolo del libro) del disegno e dell’incisione che Renato Guttuso eseguì per omaggiare Pablo Neruda nel 1973, quando quest’ultimo morì in circostanze non del tutto chiarite a Santiago del Cile. La posa di Neruda, col braccio destro che pende inerme oltre il bordo del letto, stabilisce un nesso inequivocabile con il quadro di David La morte di Marat (1793). La medesima posa del braccio ricorre in entrambe le opere, nel disegno e nel dipinto, e affonda le proprie origini nell’Antichità classica, nelle raffigurazioni della morte di Meleagro. Se quello di Guttuso è un repechage dichiarato e che calca in modo speciale sulla valenza politico-civile che il «gesto della morte» acquisisce nel contesto del 1973, in altri casi il rapporto si fa più medi(t)ato, come nel caso di Bill Viola e del suo modo di reinterpretare la tradizione artistico-visiva, soprattutto pittorica. Non a caso l’artista definisce se stesso specificamente come pittore.
Se le «formule di pathos» si rincorrono tra un capitolo e l’altro, è bene però sottolineare come nel volume ci sia molto di più. C’è, ad esempio, la grande attenzione al rapporto tra diverse tradizioni, nel caso specifico tra antichità e contemporaneità. I processi – e la parola non è casuale – dell’archeologia, che sono fatti di scoperta, di analisi e di messa in relazione delle cose, spesso divengono la chiave per comprendere in che modo operano alcuni artisti. È il caso di Grisha Bruskin, che con le sue sculture sepolte nelle campagne della Toscana mette in atto una vera e propria ‘archeologia memoriale’ nel momento in cui, dopo anni sottoterra, le riporta alla luce. Di colpo la scienza delle cose più antiche e la pratica dell’artista, classe 1945, si trovano a condividere un terreno comune, un terreno che svela in che modo l’ossatura concettuale sia imparentata, come nei due processi le categorie che scendono in campo siano quasi le stesse. Lo scorrere del tempo che mostra i propri effetti sulle sculture, il gesto dello scavo che Bruskin compie, sono elementi che si legano a una pratica, quella artistica, che rivela il proprio meta-discorso, che si auto-manifesta. Analogamente, ma in modo diverso, le sculture di Giuseppe Penone agiscono sul tempo. L’artista infatti, intrecciando materiali e gesti quali la fusione del bronzo o lo scolpire il legno, riflette in modo assai profondo sulla Natura e sul passare del tempo. Il legame col mondo naturale diventa duplice, perché l’artista lo riproduce e perché, allo stesso tempo, egli inganna chi osserva il suo lavoro. Il crinale tra naturale e artisticità – cioè l’atto dell’artista che ri-definisce qualcosa facendogli acquisire il particolare status di opera d’arte – diventa sottilissimo, e in questo assottigliarsi si potenzia sempre di più. Settis dimostra in ognuno degli affondi del volume come sia utopico e velleitario pensare che le forme artistiche contemporanee siano completamente avulse e slegate dalla tradizione.
Questo volume va in qualche modo letto assieme al libro che Carlo Ginzburg pubblicò nel 2015 da Adelphi Paura reverenza terrore. Se in quel caso si trattava di Cinque saggi di iconografia politica, è pur vero che gli strumenti messi in campo dall’autore sono avvicinabili a quelli dispiegati da Settis nelle sue Incursioni. Le riflessioni sul Marat di David contenute nel saggio su Guttuso, ad esempio, si leggono d’un fiato con il terzo capitolo del libro di Ginzburg, e nell’insieme i due saggi formano un perfetto dittico. Ed entrambi gli studiosi si muovono in certa misura sotto la stella di Warburg.
Torniamo al principio, alla frase di Carrère. Uno degli aspetti più importanti del libro è che tutto ruota tutto attorno al come si decide di ‘cucinare’ i propri materiali. È un dato che accomuna sia l’oggetto della ricerca che, evidentemente, l’autore. Ognuno degli artisti presi in esame ha evidentemente una via sua propria per arrivare alle opere, eppure i meccanismi e le categorie che scendono in campo sono in fondo le stesse. Basta essere sufficientemente curiosi e non fermarsi alla superficie.