Il Nicaragua della Rivoluzione sandinista raccontato da queste colonne circa 40 anni fa è sempre più un pallido ricordo. In vista delle elezioni presidenziali in programma domani, 7 novembre, con Daniel Ortega che si propone per il quarto mandato presidenziale consecutivo, la stampa nicaraguense indipendente è in carcere o costretta a operare nella clandestinità (e dall’esilio). È uno degli effetti della clamorosa rivolta popolare dell’aprile 2018, partita soprattutto da giovani studenti (i “nipoti” del general de hombres libres Sandino), che si prolungò per mesi e venne repressa nel sangue di almeno 328 di loro. Col “fu” comandante de la revoluciòn Ortega a spacciarla maldestramente per un tentato golpe esterno.

Da allora in Nicaragua vige un asfissiante stato di polizia che l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale non ha fatto che esasperare. Nell’ultimo anno le leggi varate per iniziativa della vicepresidente (nonché consorte di Ortega) Rosario Murillo hanno reso illegale qualsiasi dissenso, introducendo il reato di «tradimento alla patria», perseguendo le ong locali sostenute da «agenti stranieri», azzerando di fatto la residua dinamica politica, con ciò che rimaneva di società civile organizzata.

Dal giugno scorso tutti e sette gli aspiranti candidati presidenziali (di varia estrazione politica) sono stati incarcerati (o sottoposti ai domiciliari) e tre partiti sono stati messi al bando. Gli uni e gli altri sostituiti da fantocci di comodo al servizio dell’orteguismo, come il reverendo Guillermo Osorio di Camino Cristiano.

Sono finiti dentro, a mo’ di avvertenza, anche alcuni esponenti (minori) dell’oligarchia imprenditoriale locale con la quale Ortega aveva sottoscritto un patto all’insegna dell’arricchimento esentasse, cui il suo clan si è sommato.

Ma un particolare accanimento è stato riservato a quei dirigenti sandinisti che già all’indomani della sconfitta elettorale del ’90 furono tagliati fuori dal delirio di potere del sempiterno segretario e candidato del Fronte Sandinista, perché impegnati nella difesa del sistema democratico propiziato dalla rivoluzione stessa e dunque intenzionati a riconquistare la guida del paese per la via delle urne.
Primo fra tutti lo scrittore Sergio Ramirez, premio Cervantes, dal primo giorno e per tutta la durata del governo rivoluzionario vice di Ortega; e dal settembre scorso rifugiatosi a Madrid per sfuggire a un mandato di cattura per «incitamento all’odio» seguito alla censura del suo romanzo in cui racconta la rivolta di tre anni fa.

Come lui fra Spagna e Usa ha trovato riparo la nota letterata Gioconda Belli. Mentre ben prima i cantautori Luis Enrique e Carlos Mejia Godoy, simboli dell’epopea rivoluzionaria, avevano dovuto fuggire nel vicino Costarica (insieme a decine di migliaia di nicaraguensi). In alternativa c’era l’isolamento nelle galere orteguiste senza processo con altri 159 dissidenti. Nella quarantina di quelli imprigionati negli ultimi tre mesi ci sono anche la mitica comandante Dora Maria Tellez e l’ex generale dell’esercito sandinista Hugo Torres, la cui audace operazione con scambio di ostaggi permise la liberazione dello stesso Ortega dalle segrete della dittatura somozista.

Al bando sono finiti pure i membri sopravvissuti della storica Dirección Nacional rivoluzionaria, compreso l’ex ministro della difesa generale Humberto Ortega, fratello di Daniel; che non si sarebbero certo immaginati che il primus inter pares da loro scelto per l’apparente «modestia» politico-intellettuale si convertisse in tiranno. Solo uno di loro è rimasto al suo fianco.

Da ultimo l’ex direttore di Barricada (un tempo organo ufficiale del Fronte Sandinista) Carlos Fernando Chamorro, oggi a capo di Confidencial che confeziona sul web ogni giorno dal Costarica grazie alla fitta rete sotterranea di informazioni digitali dal Nicaragua. Più clemente per lui l’esilio forzato, da figlio quale era di quel Pedro Joaquin Chamorro, direttore del quotidiano d’opposizione La Prensa che il tiranno Somoza fece ammazzare. Per non parlare delle numerosissime vittime meno in vista, come la dozzina di difensori di ambiente e territorio ammazzati nell’ultimo anno nelle zone indigene del paese dove imperano gli espropri e la deforestazione.

Il tutto nella più totale impunità e indifferenza per un paese che aveva fatto la storia e oggi irrilevante, dimenticato o rimosso, se non fosse per qualche rituale scomunica o sanzione ad personam da parte della comunità internazionale.

Pur tuttavia ha indotto figure carismatiche della sinistra mondiale come Noam Chomsky, Margaret Randall o l’ex guerrigliero ed ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica (per citarne alcune) a prendere nettamente le distanze dalla coppia presidenziale nicaraguense. Come a ratificare che la presunta «seconda tappa della rivoluzione» intrapresa da Ortega nel 2007 non era altro che un’illusione.

Siamo dunque alla vigilia di una tragica farsa elettorale, priva di una qualsiasi affidabilità nei numeri e dall’esito annunciato. Gli oppositori hanno potuto solo fare appello a restare a casa. Già nelle ultime consultazioni del 2016, girando per i seggi della capitale, avevamo riscontrato l’assenza delle code che avevano caratterizzato tutte le precedenti. Eppure il governo allora notificò oltre il 70% di affluenza. Oggi, nonostante tenga sotto ricatto in toto i dipendenti pubblici, ha dovuto preoccuparsi di dichiarare ben quattro giorni di festa, di ridurre il numero dei seggi e di estendere il diritto di voto anche nel caso si sia privi di un documento d’identità valido.

Proibiti gli osservatori internazionali, potranno assistere solo “accompagnatori” rigorosamente selezionati dal regime. Tantomeno ci saranno inviati dei media stranieri che pure numerosi avevano sollecitato un accredito mai ricevuto.

Mentre nel paese il 70% della popolazione resta condannato ad un’economia di sopravvivenza, il coronavirus continua a fare strage. Dopo Haiti il Nicaragua è il paese latinoamericano meno vaccinato, con i beneficiati (i più fedeli al regime) che non arrivano neppure alle due cifre.