Silvio Berlusconi fa sospirare l’inevitabile «passo di lato», perché passi indietro il vocabolario di Arcore non ne prevede. Poi lascia, poco dopo le 19, con un’uscita di scena da manuale del berlusconismo, assicurando di aver verificato «l’esistenza di numeri sufficienti per l’elezione». Se si ritira è per generosità, non perché sconfitto. Per «responsabilità nazionale», la nazione avendo oggi «bisogno di unità». Non manca neppure l’autocitazione, con studiato passaggio sull’Italia «Paese che amo».

Contrariamente alle attese non fa proposte il Cavaliere ferito. Promette solo, bontà sua, di lavorare con gli altri leader per concordare una proposta. Un nome però Berlusconi lo pronuncia: quello di Draghi, per affossarlo: «Considero necessario che il governo Draghi completi la sua opera». Poco prima, dopo il vertice dei ministri e sottosegretari azzurri, Antonio Tajani era stato anche più netto, definendo il premier «inamovibile» da palazzo Chigi.

LA COREOGRAFIA è studiata con altrettanta cura. Nel vertice azzurro via zoom il gran capo fa una comparsata lampo: «Non ho ancora deciso ma so di doverlo fare. Voglio sentire il vostro parere. Ci rivediamo lunedì alla riunione dei grandi elettori». Il parere, chi l’avrebbe mai detto, è che Forza Italia seguirà re Silvio qualunque cosa decida di fare. Tajani s’incarica di gestire la riunione, sottolinea che Draghi deve restare guida del governo, senza ulteriori rimpasti. I ministri, però, stanno ben attenti a non pronunciarsi in merito.

Il vertice con tutti i leader grandi e piccoli della destra fissato per le 15, anche questo via zoom, slitta, poi viene di nuovo rinviato pur senza comunicati ufficiali. Il Cavaliere non si presenta neppure in quella sede. Il suo computer si accende, ma dall’altra parte dello schermo ci sono Tajani e Licia Ronzulli, che s’incarica di leggere il comunicato della non discesa in campo. Matteo Salvini è commosso. Omaggia «il grande servizio reso all’Italia e al centrodestra» dal ritiro di Berlusconi.

Come gaffe non c’è male. Giorgia Meloni «apprezza il senso di responsabilità e la concordia nella coalizione si ferma qui. Di candidature non se ne parla. Circolano i soliti nomi, nessuno in via ufficiale. Sembrano salire le quotazioni di Casini, per il quale starebbe pressando Renzi , ma è considerato parte della sinistra. A metterlo in campo dovrà essere casomai Enrico Letta, che per il momento non ci pensa proprio, oppure lo stesso Renzi, la cui sponsorizzazione ufficiale sarebbe però per l’ex presidente della Camera più un handicap che un aiuto.

SUL COMUNICATO FINALE invece volano gli stracci, tanto che si deciderà saggiamente di soprassedere. A inviperire sorella Giorgia è il passaggio in cui il ritiratosi auspica il proseguimento della legislatura, obiettivo perfettamente opposto a quello di FdI. Un comunicato senza riferimenti a quel particolare non sarebbe concepibile. Non se ne fa niente. Ma c’è qualcosa che fa infuriare la leader tricolore anche di più. Mentre la riunione è ancora in corso le agenzie si riempiono di indiscrezioni secondo cui lei stessa avrebbe dichiarato forte e chiaro il suo no all’opzione Draghi. Poco dopo, però, un comunicato di FdI puntualizza senza risparmiare in polemica.

Su Draghi «non abbiamo espresso alcun giudizio ed è semmai problema delle forze che partecipano al suo governo». Sul candidato espressione della destra il partito di Giorgia è tiepido, palesemente scettico. Fermo sulla necessità che la destra esprima «una o più candidature della propria area culturale». Ma se questo non fosse possibile è esplicita l’apertura a un candidato «autorevole e capace di difendere l’interesse nazionale e la sovranità popolare».

L’ULTIMO PASSAGGIO prima dell’apertura del torneo sarà l’incontro tra Letta e Salvini, sul quale il riserbo è massimo. Dovrebbe essere per oggi ma non è neppure escluso un incontro segreto tra i due nella notte scorsa. Potranno dirsi ben poco. Tutti mantengono coperte le loro carte ed è difficile credere che una di queste possa rivelarsi vincente. La destra, come del resto la controparte, arriva all’appuntamento con promesse stentoree di unità a tutti i costi ma in realtà lacerata e divisa. Immaginare una regia in extremis, in queste condizioni, significa essere molto ottimisti e tutto lascia credere che a dirigere le operazioni saranno prima il caos, poi la necessità di domarlo a ogni costo. Anche perché nei giorni scorsi il presidente ancora in carica si è fatto sentire con un messaggio secco: «La situazione internazionale è rischiosa su tutti i fronti. Dovete fare presto».