Ringraziamo innanzitutto la Casa internazionale delle donne e la presidente Francesca Koch per l’ospitalità. Celebrare qui, in un luogo così ricco di storia femminista, ci dà l’opportunità di dichiarare il nostro completo impegno a fianco vostro nella vertenza in atto per la sede prestigiosa, che deve rimanere un patrimonio delle donne. Forza, ce la farete, ce la faremo.

E’ proprio passato un secolo da quando, nel 1998, nacque l’Associazione per il rinnovamento della sinistra. Allora la felice intuizione di Aldo Tortorella (il primo presidente e oggi presidente onorario) e del compianto Giuseppe Chiarante immaginò di costruire un ponte di dialogo permanente tra le diverse famiglie separate della sinistra, arricchito dalle culture della pace e dell’ambiente, con forte attenzione ai conflitti di genere. L’Associazione è riuscita a svolgere un ruolo significativo, attraverso incontri, assemblee e prese di posizione nel dibattito pubblico.

E’ importante ricordare, in tale percorso, il seminario di Orvieto del luglio 2006 (promosso insieme a Uniti a sinistra e all’Associazione Rossoverde, i cui atti furono pubblicati dalle edizioni Dedalo nel 2007, con l’introduzione dell’allora presidente Piero Di Siena) volto a riflettere sull’opportunità di pensare ad un nuovo soggetto politico unitario della sinistra. Tema quanto mai attuale, che certamente l’Ars non può eludere neppure oggi.

Tuttavia, la questione da mettere al centro dell’assemblea congressuale riguarda proprio le analogie e le differenze rispetto al filo conduttore della nostra storia. E’ impossibile immaginare una pura e semplice continuità. La sinistra (difficile solo pronunciare l’ormai blasfemo “centro-sinistra”) è attraversata da una crisi culturale profonda e irrisolta, prima ancora che da uno smarrimento politico. Per sinistra, ovviamente, va inteso ciò che ricorda a se stessa di essere nata da una critica delle fondamenta di un modello economico e sociale che non ha mai smesso di stravolgere o negare i principi di libertà, eguaglianza e fraternità affermati dalla sua stessa rivoluzione e che in Italia –a parte una debole eco in esigue minoranze del partito democratico (divenuto nel suo gruppo dirigente un settore del centrismo)- si muove essenzialmente fuori dal Pd.

Per una critica del Pd vale la pena riferirsi, oltre che alle polemiche giustamente sostenute da chi ne è uscito, al testo appena pubblicato da Gianni Cuperlo. Sarebbe, comunque, vano il tentativo di riproporre uno schema che non andrebbe al di là di un confronto diplomatico se non superficiale.

L’Ars ha tentato, in verità, di mantenere quel profilo, promuovendo nel periodo recente due dibattiti pubblici con le diverse forze della sinistra, nella speranza che si determinassero le condizioni per una lista unitaria in vista delle prossime elezioni.

L’ipotesi non ha retto, come temevamo, alla prova del budino.

E pure noi sperammo, dopo la partecipata iniziativa del teatro Brancaccio di Roma. Ora solo un miracolo laico…

Così, con lungimiranza, Alfiero Grandi –presidente uscente- fece dell’Ars il riferimento nella delicata fase di avvio della campagna sul referendum costituzionale. E il successo del No si deve molto proprio alle felici modalità con cui l’iniziativa fu avviata dall’Ars, quando ancora era in corso la discussione parlamentare e la mobilitazione civile non si era avviata.

C’è da chiedersi se non sia doveroso, alla luce degli eventi e delle difficoltà ad individuare un vasto campo di interazione sul e nel linguaggio politico, supporre che il futuro stia nel perseguire una strategia culturale. Del resto, nell’epoca del capitalismo cognitivo, la politica è soprattutto cultura. Va intesa un’attività mirata a ricostruire un tessuto denso di riferimenti fondamentali. Ciò non significa, ovviamente, che le singole persone associate non possano simpatizzare o aderire alle opzioni che si muovono a sinistra.

Sarebbe assurdo e persino grottesco immaginare per ciascuno di noi una funzione puramente metodologica o di astratta ricerca teorica. Tuttavia, al di là degli orientamenti contingenti e proprio per offrire un contributo originale alla ricostruzione o rifacimento o reinvenzione della sinistra, il sentiero da percorrere è quello di un laboratorio aperto e coraggioso. Senza accondiscendenze opportuniste o “mediane” di comodo, osando andare anche controcorrente rispetto all’agenda dominante. E sì, perché purtroppo l’omologazione culturale ha preceduto e dato forza ai compromessi politici, ai patti scritti o segreti, trasversali e sempre mediocri. Vale a dire: la sconfitta degli anni passati è soprattutto una sconfitta culturale, che affonda le radici in spazi lontani e criticamente inesplorati.

Giustamente si è detto e scritto che il liberismo non è stato solo una dottrina economica, capace di prendere il sopravvento sulla tradizione dei “trent’anni dorati” seguiti alla seconda guerra mondiale: l’età dello stato sociale e delle varie scuole del keynesismo. Diventato un rito ripetitivo e ingiallito, l’approccio socialdemocratico non ha retto né di fronte alla crisi fiscale dello Stato (ne parlò già nel 1973 James O’Connor, recentemente scomparso, nel suo più noto volume), né davanti alla caduta del prestigio e della rappresentatività delle istituzioni.

Si avviò, infatti, quel processo ben descritto da Colin Crouch (2003) e da Pierre Rosanvallon (2012) in termini di post-democrazia, vale a dire l’incrinatura dell’edificio fatto di pesi e contrappesi che ha connotato l’organizzazione civile lungo vari decenni. La botta micidiale inferta dalla crisi finanziaria di dieci anni fa, i cui effetti sono stati devastanti a tutti i livelli, non ha mutato l’orientamento. Il liberismo ha sconvolto equilibri faticosamente trovati, ha smontato il compromesso sociale ed è diventato una vera e propria ideologia.

Le sinistre degli anni novanta hanno ingaggiato una competizione interna a quei confini: “terza via” e blairismo assurti a riferimenti generali. Ecco. La subalternità complice ha pervaso una parte consistente della sinistra, con l’eccezione di componenti importanti ma purtroppo minoritarie. Nessuna delle anime, però, ha saputo cogliere la protesta montante contro le linee liberiste, nel frattempo dislocatasi come l’estuario dei fiumi un po’ a destra e un po’ (molto) nel fenomeno “5Stelle”.

Quest’ultimo, fin dalla debole campagna elettorale svolta dal Pd sotto la guida di Bersani insidiato da Monti che qualcuno aveva evocato, è stato rimosso, quasi che analizzarne la natura e la composizione aprisse uno squarcio su debolezze e inadempienze di gruppi divenuti se non casta per lo meno ceto. Troppo facile agitare l’abiura del populismo, genericamente inteso come un’unica strisciata di colore e non, come ha scritto (2016) Marco Revelli, un’assai ampia e variopinta aggregazione di movimenti e di significati.

In verità, è accaduto ciò di cui ci parla in modo illuminante Zygmunt Bauman (2017), quando sostiene che è avvenuto un divorzio tra potere e politica. La separazione tra un discorso pubblico flebile e di modesta capacità rappresentativa, e i luoghi della decisione è un tratta distintivo della crisi-transizione in corso. Ogni ri-costruzione deve ripartire da qui. E’ fondamentale riscrivere, innanzitutto, la parola Politica, attribuendole una valenza semantica, oltre che simbolica, finalmente adeguata.

I poteri forti stanno nelle due facce di un’unica medaglia: i centri finanziari e i cosiddetti Over The Top, ovvero i colossali dominatori dei dati e degli algoritmi che li creano. Finanzcapitalismo (secondo la definizione di Luciano Gallino) e datacrazia (come l’ha chiamata Derrick de Kerckhove).

Stiamo parlando dell’Occidente, laddove un esercizio veritiero dell’analisi avrebbe il compito primario di voltare il mappamondo, verso il Sud e l’Est del mondo. Là si sta spostando la Storia in un’evoluzione che uno sguardo bianco (e maschile) eurocentrico non riesce a decifrare. Né la comoda coperta delle progressive sorti della globalizzazione serve a qualcosa, ora che è stracciata da nazionalismi e sovranismi corporativi. E ora che i flussi migratori ci impongono di pensare seriamente all’etica dell’accoglienza. Naturalmente, il destino non è già scolpito nelle tavole. In fondo, Corbyn o Sanders o Podemos o Syriza ci ammoniscono che alternative esistono e possono rovesciare il fato crudele. Il filo rosso che collega esperienze così differenti è, però, chiaro e costituisce di per sé un programma: serve un rovesciamento dell’approccio del ventennio liberista e dei suoi succedanei debol-riformisti.

Ma, prima di tentare di ragionare sulle culture, è d’obbligo affrontare l’indicibile rimosso: perché ha vinto Trump? Perché si registrano tristemente ritorni neo-fascisti e neo-nazisti? Perché la crisi dell’Europa in termini di ritorno al passato? Vale la pena di raccogliere le acutissime riflessioni di Naomi Klein (2017), quando corregge via via nel corso del suo ultimo volume il titolo stesso dato al testo (“Shock politics”), individuando ragioni né improvvise né astrattamente ideologiche nel successo del neo presidente conservatore.

Anzi, parla del “nostro Trump interiore”. Quanto è vero. E il discorso vale pure per Berlusconi e, per altri versi persino per Renzi. C’è stata un’adesione emozionale, che va al di là di ogni diagnosi logico-formale. Il liberismo si è trasformato in una fede, in una religione pagana, supportato dalla “rivoluzione” mediatica. Il rapporto uno-molti, il leaderismo mediatizzato, lo sconquasso dei luoghi della mediazione si sono accompagnati alla crisi delle condizioni materiali di gran parte della società.

Solo in Italia il 30% delle persone è ai confini della povertà e 10 milioni e mezzo di donne e di uomini vivono in stato di indigenza.

E, di converso, forse mai come in questa stagione si sono determinati veri e propri fenomeni di sfalsamento ideologico, intrisi di falsa coscienza. Le condizioni materiali non comportano (se non eccezionalmente) forme classiche di conflitto. Va sottolineato, piuttosto, come disoccupazione e precariato abbiano come esito il rifiuto della politica o l’astensionismo. Una politica debole viene occupata da altri immaginari. Proprio la “resurrezione” di Silvio Berlusconi (a parte il sonno della ragione sul conflitto di interessi, la cui mancata seria regolazione si riverbera pure sul caso Boschi-banca Etruria) e persino la fase montante del “renzismo” ci segnalano che il paradigma realtà-apparenza si è rovesciato. Non tanto e non solo per le reiterate fake news di cui si parla spesso a sproposito, quanto per un fenomeno generale. Sono le sequenze indagate, ad esempio, da Maffesoli (2006) in merito al predominio sulle istanze logico-formali del “vissuto” e dell”emozionale”, oltre che –magistralmente- dalle lezioni sulla biopolitica di Foucault.

Lo sfondo dell’azione velocissima del tempo digitale (mentre la Politica forte è stata parte integrante dell’era analogica) dà luogo ad ulteriori mutamenti nella sintassi e nella stessa grammatica del discorso pubblico. Il capitolo dei conflitti della “modernità seconda” è affrontato da numerosi studi, finalmente non viziati dal determinismo tecnologico: dall’opera antologica di Manuel Castells, ai testi di Luciano Floridi (2017) sulla quarta rivoluzione, a quelli di Michele Mezza sugli algoritmi che detengono i lucchetti dei saperi, al brillante Alessandro Dal Lago sul populismo digitale: valore e limiti, fasti e nequizie della rete e dei social.

Insomma, il filo conduttore della stagione post-fordista, dei tormenti post-globalizzazione con la tragedia dei morti dei viaggi in mare e dei modelli alla “Brexit”, dell’ascesa della “datacrazia” (contestata, da destra, dalla decisione della Federal Communications Commission a maggioranza trumpiana con l’abolizione della “Net neutralità” che premia i vecchi media delle reti fisiche in guerra contro gli oligarchi dell’iCloud) sta proprio nel rovesciamento. La società dello spettacolo di Debord moltiplicata alla n potenza del numerico e dei quanti e il “Sesto potere” (Bauman-Lyon, 2013) dei controllori della nostra identità digitale (a noi ignota) hanno preso il sopravvento. Le destre e il primo renzismo si sono piegate con opportunismo ai nuovi sovrani, identificandosi.

Le sinistre non hanno probabilmente capito, se non eccezionalmente, quanto stava avvenendo. Sui media, poi, il peccato è antico ed è costantemente reiterato. In tal modo, la miopia delle forze storiche ha dato il via libera al fenomeno del “Mov5Stelle”, che si capisce davvero in tale “quadrato semiotico”. Uno dei compiti che avrà l’Ars sarà proprio l’indagine sul campo su ciò che il “grillismo” è stato ed è. Come metafora del presente.

E le stesse destre, supponendo di trovare ancoraggio e rifugio nell’occupazione mediale delle coscienze, nel frattempo hanno così sdoganato fascismi e nazismi, che nel vuoto dei riferimenti essenziali hanno rimesso su la testa, schiacciata a costo di asperrime battaglie dalla Resistenza antifascista. Abbiamo convintamente aderito ad un efficace appello lanciato dalla neo-presidente dell’Anpi, Carla Nespolo.

Ecco, il compito che ci prefiggiamo non è l’aggiunta di un posto a tavola nelle e con le sinistre attuali, bensì un’intrapresa contigua ma diversa: la ri-costruzione, il ri-facimento, la re-invenzione delle culture politiche di e per una sinistra dell’epoca digitale in grado di interagire –riconoscendoli- con i conflitti, visibili e invisibili.

Argomenti come l’economia verde (l’insostenibilità dell’attuale ecosistema, la rapina della terra) e il clima, il destino del lavoro nella stagione dei robot con l’inizio di scintille inedite, come è accaduto in Amazon (monopolio mondiale, con effetti collaterali abnormi), il macro mondo della ricerca, della scuola e dell’università: i titoli di testa di un aggiornato programma né efimero né sloganistico. Servono risorse, ovviamente. E così, innanzitutto, va rilanciata la campagna per l’abolizione della disastrosa “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio, con annesso Fiscal Compact. Partecipiamo senz’altro alla raccolta di firme lanciata, al riguardo, dal Coordinamento per la democrazia costituzionale.

Insomma, il capitalismo delle piattaforme, i monopoli dell’economia digitale, i giganteschi network della distribuzione, l’intelligenza artificiale e la geometrica potenza degli algoritmi ridisegnano il nomos politico. Così come la precarizzazione strutturale del lavoro riclassifica le figure professionali e i mestieri. Ricordiamo ancora le analisi chiare e predittive di studiosi e dirigenti sindacali, o gli spunti prefiguranti di Lucio Magri (1977) sul capitale che si fa becchino dei suoi stessi (potenziali, ma vinti) becchini.

Il lavoro e i rapporti sociali. Un giovane studioso olandese –Rutger Bregman- ci ha regalato (2017) un saggio di “innocente” genialità che ci interpella sull’utopia per e dei realisti. E sì, perché non si contrasterà efficacemente la crisi (fenomeno esistenziale, oltre che materiale) se non si afferra il destino, con il sogno e con l’utopia: reddito universale di base, apertura delle frontiere, diminuzione dell’orario di lavoro. L’utopia va riscritta con la penna suggestiva e illuminante di Bauman, che ci costringe a pensare in maniera dialettica, tra il passato migliore di cui abbiamo nostalgia e il futuro da liberare dall’oscura trama liberista.

E’ una sequenza di una decisiva lotta culturale, visto che –come disse in una lezione a Madrid del 1991 Pietro Ingrao (in “Memoria”, a cura di Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, 2017)- “la nozione stessa di tempo cambia: diventa…puntiforme; e si attenua perciò la trasmissione della memoria storica e quindi del rapporto passato-futuro.

La tensione stessa verso il futuro si indebolisce…”. Il viaggio nel tempo, dunque, è essenziale. La politica ha bisogno di in po’ di fantascienza e di futurologia, per citare una felice intervista a “La città futura” (1984) di Enrico Berlinguer. E ha necessità di riscoprire fino in fondo l’etica, nei termini utilizzati da Mario Dogliani su Critica marxista (n.3/2017).

Lo spirito riformatore si riconquista guardando all’universo e non indulgendo alla finestra sul cortile. Senza Hitchcock. Lo scenario internazionale, con la guerra mondiale a pezzi di cui parla sapientemente il Papa di Roma Francesco, deve tornare in cima all’agenda delle priorità. Il drammatico genocidio in atto dei palestinesi per la sciagurata scelta di Trump (ancora lui) su Gerusalemme –città aperta e multireligiosa da 5.000 anni- ci dà la sveglia. E’ urgente, pena la dissoluzione di ogni pensiero critico, riprendere in mano il villaggio globale, rigirarlo adeguatamente; e capire, tra l’altro, che la questione africana si declina con il colonialismo europeo (nel 2018 ricorre l’ottantesimo delle turpi leggi razziali del ventennio) e la Cina è davvero vicina. Senza rimettere la testa lì non capiremmo mai come si decifra il citato nodo cruciale delle migrazioni, su cui ad esempio l’Arci sta facendo un gran lavoro. Non è questione di ordine pubblico, se non nei casi di conclamata violazione, ovviamente. E’, piuttosto, l’altra faccia della globalizzazione dei mercati e dell’immaginario collettivo, che ha suscitato un’attrazione fatale verso l’aria serena dell’Ovest.

Non è questa la sede per ipotizzare soluzioni o lanciare programmi. Neppure l’Ars si candida alle insopportabili passerelle dei talk televisivi. Va sottolineato, però, che la rivista “Critica marxista”, importante punto di riferimento -la “terza pagina” della sinistra-, fornisce materiali di rispetto. L’Associazione riprenderà vigore se si utilizzerà in modo intelligente proprio il rapporto con la rivista. L’idea che perseguiamo è di dar luogo, come per i numeri sul sindacato, ad incontri pubblici. Inoltre, ci piacerebbe utilizzare le tecniche trasmissive evolutissime, per coinvolgere digitalmente Domingos sugli algoritmi, Mazzucato sull’intervento dello stato, Mason sul postcapitalismo. E Judith Butler, che ha scritto pagine sui corpi e sulle interconnessioni delle sofferenze. La ricerca femminista torna di attualità sconvolgente e guai a lasciar perdere, dopo una o due fiammate di protesta contro i lati diabolici degli esseri maschili, dimenticandosi tutto.

Ho parlato di figure significative che non risiedono in Italia, cui l’Ars potrebbe proporre una proficua compartecipazione “virtuale” alla lotta delle idee. Ma è innanzitutto con i nostri vicini di casa (a cominciare dal Centro per la riforma dello stato società, insieme ad altre strutture con le quali ci piacerebbe intessere relazioni stabili) che vorremmo un’”unione civile”. Pretendiamo di avere una piccola utopia. Al di là delle cose della politica-politica e delle liste elettorali (l’Ars non dà indicazioni di voto come organizzazione, lasciando ai singoli –come già detto- di esporre anche pubblicamente le proprie opinioni), si propone una sorta di “Partito unitario delle sinistre nelle culture”, una sorta di “federazione” che metta a sistema i numerosi rivoli della riflessione.

Per andare oltre le deludenti linee del centrosinistra ed applicare sul serio il capoverso dell’editoriale di Aldo Tortorella del n.6/2016 di Critica marxista: “…Non si tratta più di ridefinire soltanto, com’è ovvio, le politiche, ma il significato stesso delle proprie finalità dato che le parole come “socialismo” o “sinistra” erano venute perdendo il senso intuitivo che sembravano avere nel Novecento e quindi esse stesse andavano ridefinite…”

“Riusciranno i nostri eroi…” intitolava uno dei suoi celebrati film un compagno che rimpiangiamo, Ettore Scola. Chissà, ci si cimenti. Serve, però, per dirla sempre con Bauman, “una storia d’amore con la nostra fantasia”.

Usciremo dall’assemblea con una nuova presidenza, composta da coloro che intendono rimanere della compagine uscente –che va ringraziata per la tenacia nel tenere accesa la speranza- e da un nuovo pacchetto di mischia. Buone cose.