C’è da chiedersi se la giuria del Booker Prize, prima di attribuire il premio a Shehan Karunatilaka per il suo The Seven Moons of Maali Almeida, abbia letto su The Conversation l’identikit del perfetto vincitore come lo ha tracciato Naomi Adam, ricercatrice all’università di Liverpool, analizzando i profili di coloro cui è stato assegnato il riconoscimento a partire dal 1969, anno della prima edizione.

Facendo una media ragionata, il romanzo prediletto dalle giurie del Booker è un tomo di 408 pagine, ambientato negli anni Ottanta a Londra e dintorni («la capitale britannica compare quattro volte più di frequente rispetto a qualsiasi altra città nella rosa dei recenti vincitori»), all’interno del quale «si esplorano i temi del tempo e della memoria, dell’amore e della perdita nonché delle dinamiche familiari». Il o la protagonista lavora «nell’industria creativa ma è in qualche modo socialmente emarginato» e il romanzo «incorpora diversi punti di vista, molti dei quali inattesi, come un morto o una mandria di bovini al pascolo». Da aggiungere che pure «il colonialismo e i suoi effetti sono temi di grande interesse» e non guasta «una bella copertina azzurra».

Quanto alla persona che mette la firma in copertina, è – sempre facendo la media dei vincitori passati – un maschio bianco britannico di 51 anni e mezzo, con una carriera consolidata nella scrittura, nato preferibilmente sotto il segno dei Gemelli (dal 2000 in poi la presenza di autrici e autori che festeggiano il compleanno tra maggio e giugno è stata massiccia). Ma nella sua analisi Adam si rivela consapevole che «the times are a-changin’» e i bianchi britannici oggigiorno partono svantaggiati, e azzecca il pronostico puntando le sue carte su Karunatilaka: «Narrativa storica? Sì. Un’immersione in un recente trauma postcoloniale? Sì. Voce narrante di un creativo (fotografo), emarginato, fantasma? Sì, sì, sì».

Attenzione, però, a pensare che bastino queste istruzioni per imbastire un romanzo di successo – anche perché, ammonisce Jordan Pruett su Public Books, la definizione stessa di bestseller può essere scivolosa, dato che le classifiche, pure le più «autorevoli» come quella del New York Times, non sono attendibili. Ne è una prova la causa vinta nel 1983 dal quotidiano statunitense che in nome della libertà sui contenuti editoriali rivendicò il diritto di omettere dalla lista dei libri più venduti un romanzo dell’autore dell’Esorcista, William Blatty. Ma anche senza evocare casi particolari, Pruett segnala che, almeno fino a una ventina di anni fa, l’esclusione della narrativa di genere in formato tascabile (i gialli ma soprattutto, e in parte ancora oggi, i rosa) ha fortemente viziato i dati delle vendite. Diversa la situazione attuale: «Un thriller di James Patterson lo trovi ovunque, in ogni formato – in brossura da Walgreens, in copertina rigida da Barnes and Noble, in e-book su Amazon» e di conseguenza anche nelle classifiche più sussiegose.

Chi per fortuna non si pone il problema di costruire un bestseller o di vincere un premio letterario è Cormac McCarthy che dopo sedici anni di (apparente) silenzio sta per pubblicare due romanzi, The Passenger, in uscita da Knopf il 25 ottobre, e Stella Maris, che arriverà nelle librerie degli Stati Uniti il 6 dicembre – due testi collegati fra loro, scrive Alexandra Alter sul New York Times, i cui personaggi «discutono di concetti bizantini come la teoria delle stringhe e la teoria della gravitazione». Inutile precisare che lo scrittore ha già fatto sapere che non rilascerà interviste.
E qualcosa ci dice che nessuno dei due titoli sarà nella lista del prossimo Booker (McCarthy non è nato sotto il segno dei Gemelli, ma non si tratta solo di questo).