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Sergio Mattone, un magistrato con il faro sui diritti del lavoro

Sergio Mattone, un magistrato con il faro sui diritti del lavoroIl giudice di Cassazione Sergio Mattone

Il ricordo del giudice La sua scomparsa, proprio nell’anno del Jobs Act, sembra segnare il termine della parabola dello smantellamento di un sistema avanzato di tutele

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 6 novembre 2015

Sergio Mattone è stato giudice a lungo, fino all’età di 75 anni, ed è stato un grande giudice. Ha ricoperto ruoli diversi, prima pretore negli anni ‘70 a Barra, poi in tribunale a Napoli, infine in Cassazione, da ultimo Presidente titolare della Sezione lavoro. Una carriera prestigiosa, che ha premiato la sua raffinata cultura giuridica e la sua riconosciuta capacità professionale.

Ma Sergio Mattone è stato ben altro. Un intellettuale che si era formato nel fermento di quegli anni, e che credeva profondamente nei valori costituzionali che dopo la loro enunciazione nella Carta su cui si fonda l’Italia repubblicana, aspettavano ancora una compiuta realizzazione. E che ha sentito sempre questo obbiettivo come dovere ineludibile e primario, come la ragione vera del suo essere giudice. Di qui la sua adesione a Magistratura democratica, di qui la sua dedizione di magistrato e di studioso al diritto del lavoro.

Perché la specialità del diritto del lavoro consisteva proprio nell’avere fatto propria la consapevolezza «delle mistificazioni insite nell’asserita condizione di parità delle parti», che invece vivono una fisiologica condizione di squilibrio, segnata dal bisogno economico dell’una a fronte della disponibilità dei mezzi di produzione dell’altra. E il giudice del lavoro è stato immaginato dal Legislatore degli anni ’70 (dopo lo Statuto, la legge n.533/1973) come l’arbitro consapevole e maturo di questa contrapposizione: Sergio è stato capofila di un gruppo di giovani giudici che hanno vissuto con entusiasmo quella stagione e che hanno concorso a dare vita (vita vera, fatta della fatica e del sacrificio di tante persone) al diritto del lavoro, grazie al suo spessore culturale di giurista ma soprattutto alla sua passione civile ed al suo impegno costituzionale.

Era un giudice «schierato», Sergio, eppure nessuno di quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nel suo percorso professionale ha mai sollevato un dubbio a proposito della sua piena serenità di giudizio, e della sua totale libertà da condizionamenti indebiti. Perché Sergio era forte di una consapevolezza (destinata ad affievolirsi presso le generazioni successive), quella per cui il diritto del lavoro, se voleva farsi strumento di tutela di soggetti deboli, non poteva che essere «diseguale», unico modo per poter assolvere al compito di promuovere i diritti (e non certo di coltivare privilegi).

Le stagioni successive – quelle del progressivo abbandono della prospettiva costituzionale dell’eguaglianza sostanziale – lo hanno visto osservatore critico e disilluso, ma sempre puntuale e lucido sul piano tecnico. Ad ogni succedersi di leggi che via via spingevano il lavoro verso la sempre maggiore «flessibilità», accrescendo in realtà la precarietà di vita e di reddito, erano le parole di Sergio a svelare l’inganno ed a indicare le questioni aperte, le linee di resistenza costituzionale, le possibili prospettive per un’economia post – fordista a cui non bastavano più gli schemi normativi basati sulla realtà della fabbrica. I suoi interventi più recenti sulle possibili regole per la rappresentanza sindacale, o sul reddito di cittadinanza, tutti reperibili su Questione giustizia, rivista del cui comitato scientifico faceva parte ed a cui tanto ha contribuito, danno il segno della sua capacità prospettica e del suo coraggio innovatore.

Ma non solo: il suo impegno anche per la Rivista giuridica del lavoro, e per l’Associazione per i Diritti sociali e di cittadinanza, che ha contribuito a costituire, rispondevano a quel suo bisogno di apertura, oltre i recinti della corporazione, di confronto con le voci di diversa estrazione e sensibilità.

La sua scomparsa, proprio nell’anno del Jobs Act, sembra segnare il termine della parabola dello smantellamento pressoché totale di un sistema avanzato di tutele, che ha reso il diritto del lavoro non molto di più di una sottovoce del diritto commerciale. Noi perdiamo in questa difficile contingenza un Maestro, ed un modello, che per la sua cultura, la sua modestia, e la sua umanità dovrebbe rappresentare un esempio per tutti i magistrati, proprio nell’epoca in cui il diritto del lavoro sta perdendo se stesso.

*Giudice del lavoro, ex segretaria di Magistratura democratica

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