Sergio Leone, l’avventura di «C’era una volta in America»
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Sergio Leone, l’avventura di «C’era una volta in America»

Pagine Piero Negri Scaglione, «Che hai fatto in tutti questi anni», da Einaudi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 luglio 2022

Se si vuole raccontare la biografia di «C’era una volta in America», l’ultimo film di Sergio Leone pensato, vagheggiato, inseguito, realizzato nel corso di diciotto anni dal 1966 al 1984, quando viene presentato al Festival di Cannes, bisogna ricostruire i retroscena del progetto più complesso del regista, moltiplicando gli incontri con i testimoni della grande avventura. Sta lavorando all’edizione di «Il buono, il brutto, il cattivo» quando s’imbatte in «Mano armata», il romanzo di Harry Grey sull’ascesa e il declino di due gangster ebrei newyorkesi, Noodles e Max, gli amici inseparabili che saranno divisi da una donna. Chi era Harry Grey l’autore se lo fa dire dal figlio Simeon, che lo ricorda intento a scrivere i suoi romanzi, senza mai parlare dei suoi burrascosi trascorsi di giovane criminale. «Nasco con il neorealismo», sosteneva Leone, «ma ho sempre pensato che il cinema è avventura, mito e l’avventura e il mito possono raccontare i piccoli fantasmi che ognuno di noi ha dentro».

Alla sceneggiatura hanno lavorato in tanti, da Franco Ferrini a Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, da Enrico Medioli a Franco Solinas. Medioli rivendica di aver rubato all’incipit della «Recherche» proustiana la battuta: «Sono andato a letto presto», che Robert De Niro dice a mezz’ora dall’inizio, chiarendo la natura del film, un’epica moderna o postmoderna, più che un gangster-movie. Perfettamente a suo agio nell’intreccio tra flashback e flashforward, nei vertiginosi salti di tempo, ricorda il contributo eccezionale di Kim Arcalli, prematuramente scomparso nel febbraio ’78: «Il perno centrale del film è di Kim, un’idea semplice e fondamentale: è Max stesso che richiama Noodles perché lo uccida, un suicidio per mano dell’ex migliore amico che dà tutto un altro senso (e spessore) all’intreccio e ai personaggi, un twist narrativo che sposta la storia su un livello mitologico, psicologico, tragico del tutto diverso. Il ritorno a New York, sulla scena del crimine, non è un viaggio più o meno nostalgico nel passato, ma un regolamento di conti con se stessi».

Claudio Mancini, l’organizzatore, che aveva lavorato già in «C’era una volta il West» e in «Giù la testa» dopo centinaia di film di Camerini, Coletti, Mattoli, Matarazzo, ricorda affettuosamente l’amico: «Di tutti i registi che ho conosciuto nessuno era stacanovista come Sergio. Non arriva mai in ritardo, andava via per ultimo. Non rompeva mai le scatole, neanche quando stava male. Non faceva mai i capricci, era sempre per il lavoro. Perché me ne sono innamorato come di nessun altro? C’era un’intesa speciale. Quando andavo a cercare i posti dove girare era come averlo alle spalle, sapevo perfettamente quello che voleva. Detto alla romana, in senso buono, era un gran fijo de ’na mignotta, praticamente un genio. Poi c’erano certe volte che lo volevi ammazzare».

Robert De Niro l’autore lo incontra via Zoom nel dicembre 2020 a settantasette anni: «Quando guido verso New York e arrivo sulla strada che gira intorno a Paramus, New Jersey, vedo lo skyline della città e penso sempre a lui, a Sergio Leone. Ecco dove avrebbe potuto girare quella scena che aveva in mente, con Noodles che torna del Lower East Side dopo trentacinque anni. Sarebbe stata perfetta». Il 14 giugno 1982, ore 9.30 del mattino, siamo finalmente al primo ciak al Teatro della Cometa di Roma. Leone torna a dirigere un set a dodici anni dalle riprese di «Giù la testa» con la scena che apre il film, il duello delle ombre cinesi che rappresentano Rãma e Rãvana, il Bene e il Male, che richiederà sedici movimenti di macchina, di cui è protagonista assoluto Tonino Delli Colli, il grande direttore della fotografia.

Senza digitale, senza effetti speciali, senza monitor fa un lavoro straordinario: «Dovevamo differenziare tre epoche. Per questo gli anni Venti sono marroncini, un po’ come le foto di allora e le comiche color seppia di Chaplin, gli anni Trenta vivono di tonalità bianco e nere metalliche sull’esempio dei film di Hawks, Walsh, LeRoy, mentre il 1968 è moderno come i film di John Milius e Arthur Penn. In realtà, la vera differenziazione è stata realizzata in sede di stampa in laboratorio, intervenendo sui colori anche più di quanto non fosse stato fatto durante le riprese. Il difficile fu raccordare in maniera uniforme le tre epoche e che ci fosse sempre la medesima tonalità per ciascuna di esse nonostante i tempi di realizzazione fossero differenti» (pp. 328, euro 20,00).

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