Quindici anni di incontri, interviste, telefonate, discussioni, passeggiate, pranzi, cene tra Roma e Parigi, Cannes e Venezia non sono stati sufficienti per scoprire il segreto di Sergio Leone, uno dei protagonisti assoluti del cinema popolare italiano sospeso secondo Bernardo Bertolucci tra “bella volgarità” e “grande sofisticazione”, ma in compenso ci hanno regalato queste straordinarie conversazioni che, uscite vent’anni fa nelle edizioni dei “Cahiers du Cinéma”, sono finalmente disponibili in italiano nella bella traduzione di Massimiliano Matteri. Nonostante le numerose dichiarazioni del regista romano disseminate dappertutto, in nessun altra occasione il figlio di Vincenzo Leone, in arte Roberto Roberti, celebre regista del muto, e di Bice Waleran, nome d’arte di Edvige Valcarenghi, parla esplicitamente del suo personalissimo e viscerale rapporto con il mezzo in cui mito familiare e pulsioni cinefile contribuiscono a fare della sua opera un singolare pellegrinaggio alle fonti. Sono preziose le pagine sul lungo apprendistato attraverso il quale dal neorealismo alla Hollywood sul Tevere impara il mestiere metabolizzando sguardo italiano e ottica americana, generi e autori, realtà e finzione, memoria e vissuto. Come assistente o aiuto, regista della seconda unità, sceneggiatore, attore, frequenta dall’interno il set degli anni cinquanta, da Ladri di biciclette a Sodoma e Gomorra, un’immersione totale in cui matura l’esemplare padronanza delle tecniche e delle pratiche, alla base del carisma del futuro autore. Il mito della frontiera rinasce tra rêverie nostalgica e rivisitazione ironica nei suoi film a partire dal clamoroso successo di Per un pugno di dollari, che smonta il modello del western classico con la sorniona prosopopea di chi pensa in grande. L’importante è esagerare. Sin dalle prime inquadrature si capisce subito che siamo altrove, sono cambiate le coordinate morali e stravolti i tempi narrativi. Le lentezze estenuanti si alternano alle accelerazioni rapidissime, mentre gli spazi sono ora risolti nei primi piani e nei dettagli, ora dilatati nei totali a perdita d’occhio. Il gioco illusionistico dell’immagine deve la sua proverbiale capacità di coinvolgimento agli squilli di tromba e ai fischi che squarciano il silenzio, ma anche ai rumori, dagli zoccoli dei cavalli agli spari, dal rotolare delle botti ai rintocchi delle campane, che animano la singolare sonorità del film. C’era una volta il West segna poi la fine dell’epopea, l’ultimo omaggio al classicismo americano prima che il paesaggio magico della Monument Valley cara a John Ford, con le sue guglie e le cattedrali di roccia, riesca finalmente a cristallizzare il sogno, mentre i personaggi assumono la consistenza immateriale, ectoplasmatica, dei fantasmi. Straordinario narratore per immagini dalle complesse strategie narrative, si conferma come uno dei maestri del cinema postmoderno con C’era una volta in America, struggente sinfonia del tempo tra Edward Hopper e Marcel Proust, il suo capolavoro. Quando se ne va a sessant’anni il 30 aprile 1989, sta finalmente per girare l’ultimo sogno della sua vita, raccontando i novecento giorni dell’assedio di Leningrado. Avrebbe voluto fare anche Viale Glorioso, dal nome della scalinata di Trastevere dove da ragazzo giocava ai cowboys e agli indiani. O portare sullo schermo Viaggio al termine della notte di Céline, il romanziere politicamente scorretto che non si stancava mai di rileggere: “Viaggiare è utile, fa lavorare la fantasia. Tutto il resto è delusione e fatica. Questo nostro viaggio è interamente immaginario. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, tutto è inventato. Tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altro alto della vita” (pp. 225, euro 24,00).