L’albergo è di quelli tradizionali ma debitamente rammodernato, con una cura che non ne compromette la vetusta comodità: la porta d’ingresso è girevole e di vetro trasparente, l’insegna ha una testa di cavallo stilizzata che rammenta la pedina degli scacchi mentre il nome, Savigny Hotel, ha la funzione di acclimatare lo straniero in terra tedesca evocando uno spirito cosmopolita, e francofono addirittura, a poco più di quindici anni dalla fine della guerra. Intorno all’Hotel, nuove arterie di circonvallazione e larghe chiazze di verde che non si sa se originarie o residuate dai bombardamenti angloamericani. Questa è Francoforte sul Meno in un sito non lontano dai padiglioni della Buchmesse, la Fiera del Libro, in cui si inoltra forse per la prima volta in vita sua, è l’ottobre del 1963, un dirigente della Mondadori non più giovanissimo, già cinquantenne, che sa poche parole di tedesco e ha un carattere timido, più portato allo sguardo perplesso, a una postura cauta e riflessiva, che non alla diretta e immediata espressione dei propri sentimenti. Quali saranno stati i pensieri di Vittorio Sereni, quali le aspettative o anche i timori di un uomo per cui la parola «Germania», pari alla più parte della sua generazione, doveva necessariamente essere sinonimo di buio, sangue, distruzione?
Quel paesaggio lindo e a colpo d’occhio ipermoderno, quegli spazi larghi e ariosi, insomma quel clima di quieta e silenziosa opulenza non potevano avere un corrispettivo se non nelle immagini, sottotraccia tremende, di un autore redivivo dalla cosiddetta «letteratura delle macerie», Heinrich Böll, acquisto recente di Casa Mondadori, un cattolico rozzo e scamiciato ma capace di diseppellire, con violenza chirurgica, il cuore di tenebra di un paese all’apparenza così assennato, laborioso, così candidamente riconciliato. In terra di Algeria, diciannove anni prima, nel sonno e nella musica nudamente eolica di un campo di prigionia, proprio Sereni aveva sognato come un angelo salvifico il primo caduto sulla spiaggia normanna, l’eroe muto e anonimo che si immolava, per primo e per tutti, all’attacco della Invincibile Armata degli ariani.
Il paesaggio davanti al Savigny Hotel in nulla adesso lo poteva evocare, tanto meno alla reception dell’albergo nel suo viavai da scalo internazionale (pieno di inglesi, francesi, spagnoli, portoghesi, sudamericani), nell’affollarsi vociante di individui omologati nel vestiario e nella disinvoltura dei rapporti, uomini e donne di rango superiore o comunque eccedente qualunque ricordo di miseria, dolore, umiliazione. Ora Sereni deve sentirsi come sempre si è sentito, un adolescente introverso, uno scolaro ritardatario e sprovvisto di giustificazione. Appena una laurea in lettere, ex insegnante, dopo un trascorso alla Pirelli, è in Mondadori da soli cinque anni, né si può dire sia un poeta riconosciuto in via definitiva. Tutt’altro: negli anni della guerra ha pubblicato un’esile plaquette, dal titolo autobiografico (è nato a Luino) e insieme deminutorio, Frontiera, che è una sommessa secessione dall’ermetismo; poi, nel ’47, il Diario d’Algeria, un libro che è già un libro suo, e stupendo, ma che molti intendono alla stregua di un palinsesto personale o insomma come un lascito dell’esperienza della prigionia, la stessa che gli ha impedito, e resta un cruccio così grande da costituirsi presto in tabù, la partecipazione alla Resistenza contro i nazifascisti. Da ultimo ha pubblicato diverse poesie in rivista (specie su «Questo e altro», redatta con gli amici di una vita, quali Niccolò Gallo e Dante Isella), ma pochi immaginano che esse stanno fermentando e si stanno agglutinando in quello che presto sarà un libro centrale, suo e del suo secolo, Gli strumenti umani (1965), in cui il viaggio a Francoforte lascia traccia evidente. Ma, appunto, la poesia in Sereni si dà per cicli di lenta metabolizzazione e quasi per stillicidio.
Un racconto sul tabù
Al principio per lui c’è il mondo, il trauma perpetuo del quotidiano, la vita totalmente in prosa da cui sgorga imprevista la vena in versi, a riprova ennesima e postuma dell’intuizione leopardiana secondo cui la prosa, soltanto la prosa del mondo, è nutrice del verso. Scriverà, al riguardo, Giacomo Debenedetti: «Nella storia della poesia di Sereni ci sono grumi di vita che hanno preteso tutto il necessario fisiologico tempo di soluzione per poi, da quella fluidità sostanziosa, disponibile a tutte le assimilazioni organiche, arrivare a cristallizzarsi liricamente». Fatto sta che dopo averlo passato a «Questo e altro» (n. 8, 1964), Sereni dà a Vanni Scheiwiller un racconto (o qualcosa del genere, «una cosa» scrive infatti nella corrispondenza) che ha steso ripetutamente, e per giunta battendolo direttamente a macchina, cui dà il titolo L’opzione. Qui c’è un «io», reticente su di sé ma in sostanza autobiografico, che si rivolge a una donna di cui veniamo a sapere, a un certo punto, essere un’ebrea scampata allo sterminio. La trama, filiforme, converge su un vuoto, una mancanza o, ancora una volta, sembra inoltrarsi nell’indistinto di un tabù.
Claustrofobico (perché Francoforte la si immagina, ma non si vede mai), il set somiglia al Savigny Hotel, i personaggi (ma sono presenze appena annunciate) richiamano dei figuranti e le parti convenute in commedia, come l’agente letterario doppiogiochista, una bellissima e ambigua editor, il drappello rumoroso degli addetti, funzionari editoriali, mediatori. Sappiamo soltanto che chi dice «io» è come tutti alla ricerca di un best seller o di un colpo che dia senso alla permanenza nel caravanserraglio, che è attirato in una trappola perché gli viene fatto credere di poter acquisire i diritti del libro del decennio, il «grande libro europeo» che sbaraglierà la concorrenza: tale libro è un falso, anzi una deludente utopia perché chi dice «io», l’ultima notte della Fiera, troverà ai piedi del suo letto, nella camera del Savigny, una carpetta piena di fogli perfettamente bianchi.
Francoforte, redenta dal benessere, è dunque il luogo del manque, di un nulla prospero, sgargiante, e tanto più abbagliante. Chi ne L’opzione dice «io» (e intanto riferisce all’unica donna che, per origine e storia, può intenderne lo stato di aleatorietà) si trova a scontare le sempiterne sensazioni di timidezza, di inadeguatezza e doloroso anacronismo: «… mi secca pur sempre, duole pur sempre che uno più giovane di te, un giovanotto, freddamente, razionalmente, in due e due quattro ti dimostri che non hai capito niente, che i tuoi strumenti non servono più a niente, che sei un affettivo, che non coi sentimenti puoi aiutare spagnoli o portoghesi o chiunque altro abbia dei bisogni, che il far lega con questi o con quelli oltre a essere la cosa più comoda non ha senso e per loro è solo nociva, li aiuta solo a star fermi come te, nel rimpianto, nel compianto, nelle occasioni perdute, nella giovinezza fuggita, nel commemorarsi…».
Ritorno con sgomento
Il funzionario editoriale, è evidente, deve essersi sentito rimproverato nelle mozioni profonde da cui scaturisce la sua stessa poesia, vale a dire, e alla lettera, la commemorazione di una giovinezza sciupata, andata a male, il rimpianto per le occasioni perdute, il volerle vanamente ripristinare e infine l’ostinarsi nella fedeltà al proprio cosmo di affetti, legami, ossessioni. Qualche luterano e lettore dogmatico de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, qualche tedesco beneducato ma forse portato a glissare al presente sui suoi trascorsi personali fra il 1933 e il ’45 deve avere rinfacciato a Sereni, senza nemmeno il bisogno di irriderlo, di essere l’uomo che era e di sentire quello che sentiva. Deve avergli, cioè, indotto un senso di vergogna, acuito un senso di colpa tanto più paradossale e rimordente quanto più indeterminato, infondato. Perciò è con sgomento e infinita cautela, con un rimorso senza nome il quale non arriva a essere risentimento, che Sereni torna a Francoforte negli anni successivi. L’anno dopo, di ritorno dalla Fiera, L’opzione è pubblicato ma con una appendice dal titolo ossimorico, La pietà ingiusta, una delle poesie baricentriche, poi, de Gli strumenti umani e in ogni caso un testo rivelatore. Come un fotogramma che incrociando spazio e tempo si dilati in sequenza, l’istantanea di una banalissima occasione di lavoro, la firma di un contratto e successiva colazione combinano quello stesso spazio-tempo in forma di allegoria. La mano tesa a un tedesco (forse un ex SS, uno comunque da non irritare, da prendere con le molle) è un gesto, sembra chiedersi Sereni, di riconciliazione? Esso vale un lavacro? O non è, piuttosto, una resa all’insignificanza, al mondo così-com’è, alla tabula rasa che tutto cancella? Un’aria di niente pervade quel rito feriale, normale e insieme vagamente immondo: «(…) / forza e calma sospette / l’abnegazione nel lavoro, la / cura del particolare, la serietà / a ogni costo, fino in fondo… / Intorno c’è aria di niente, mani sulla tavola, armi (chi le avesse) / al guardaroba: solo adesso/ si comincia a capire – e l’affare un pretesto/ il pranzo un trucco, una messinscena/ (…)». Se la costernazione è la spia immediata in Sereni dell’atto del conoscere o prima ancora del venire a capo di una oscura e indicibile sensazione, essa precede sempre gesti di cupa introversione ma talvolta di netta e vibrante, perciò liberatoria, aggressività.
Carne di porco e night
Non fa parte de L’opzione ma entra direttamente nel suo grande libro poetico un testo gemello de La pietà ingiusta e sta a quest’ultimo come l’esplicito può stare all’implicito. Si intitola infatti Nel vero anno zero, è relativamente più breve, quasi una stanza di canzone o un mottetto dilatato à la Montale, e sappiamo dalla canonica edizione procurata da Dante Isella (Poesie, «Meridiani» Mondadori 1995) che la sua prima stesura porta la data «dicembre 1964» nonché la nota in margine sul toponimo citato nell’incipit, Sachsenhausen, il nome di un quartiere di Francoforte ma anche di una località a una ventina di chilometri da Berlino nota, dopo il ’36, quale sede di un campo di concentramento per detenuti politici. Sachsenhausen, sia detto per inciso, vale «Case dei Sassoni» e lì, non troppo lontano dall’albergo, si può andare a mangiare deliziosa carne di porco. È questo il momento di un flash, di una micidiale irruzione del passato nel presente, con il profilarsi nella nebbia di spettri di deportati («un’ombra reclusa nel suo gabbano») e viceversa, come fossero spettri corrispettivi, dei sacrificati dell’armata di von Paulus a Stalingrado («mummie di già soldati / dentro quel sole di sciagura fermo / sui loro anni aquilonari»). Qualcuno, di nuovo, deve avere alluso a una equidistanza tra i nazifascisti e gli alleati, a una irenica contabilità della storia, al fatto che i morti sono morti e non se ne parli più, o meglio più non si parli di ragioni e di torti: appartiene senz’altro a costui la voce fuori campo che insinua un lepido «dopo tanti anni / non è la stessa cosa?». Questo qualcuno è peraltro impaziente, ha fame di carne di porco e ha fretta, dopo tutto, di chiudere la bella serata in un night. Di rimando, la clausola del poeta non potrebbe essere più tagliente, più efferata: Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore. Tale, per il poeta, è l’anno zero di una smemoratezza che si manifesta in Germania e altrove ormai come pacata, assennata, gestione dell’oblìo.
Germania uguale fallimento Sereni tornerà in più di una occasione a Francoforte, almeno fino al 1978, l’anno in cui si congeda da Mondadori. Non è un caso che nei mesi immediatamente successivi, giusto il suo propendere a quanto definisce la «ripetizione dell’esistere», egli torni alla prosa de L’opzione e ne scriva non tanto il prosieguo quanto l’esatto contrappunto, cioè la lunga riflessione, da oggi a ieri, nel set immancabile del Savigny Hotel, che decide di intitolare, come si trattasse leopardianamente di una attesa frustrata, Il sabato tedesco, uscito per la prima volta da Il Saggiatore nel 1980, e a cura di Franco Brioschi, nel volume omonimo dove è indicizzato dopo L’opzione e La pietà ingiusta. (Del trittico, è certo che l’autore avrebbe volentieri fatto il centro del libro delle sue prose più marcatamente autobiografiche, ma ebbe tempo solo di progettarlo e intitolarlo La traversata di Milano, come risulta dal complessivo e postumo La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, Mondadori 1998, e più avanti, sempre a cura di Giulia Raboni, dal monumentale «Oscar» Poesie e prose, 2013). Qui, Il sabato tedesco ha chiara funzione metanarrativa, disponendosi per così dire a cannocchiale rispetto ai due testi precedenti perché risponde, o tenta più o meno obliquamente, alla domanda rimasta per anni inevasa, rimossa. Ciò che nel 1963 gli veniva rinfacciato con malcelata irrisione (perché essere affettuosi, umani, pietosi?), quel sentimentalismo che solo l’anno dopo agli occhi della società affluente risultava già uno stolto anacronismo (patetica istanza di memoria e ricordo, rabbia verso i militanti dell’oblìo), ora torna nei modi di un definitivo spaesamento, alla maniera di un non-ancora fatalmente trapassato in un mai-più. Alla fine Francoforte, o la Germania per esteso, è solo il nome di un fallimento, l’insegna della vita che non è stata, l’emblema di una tragedia inabissata, inascoltata, la vita di un uomo e virtualmente di tutti: «Come se lì, dal punto arretrato nascosto in noi stessi e riflesso a intermittenze nelle luci della città notturna, in questo o in quel senso o in quell’altro ancora qualcosa dovesse incominciare. Le cento nostre vite possibili ronzanti in questo alveare saltuario. Il futuro che mai è stato. I cento futuri del passato». Perciò Il sabato tedesco chiude con la mesta, ironica, menzione del fatto che le città di Francoforte e Milano sono gemellate.
Intanto Sereni è alle prese con quello che sarà il suo libro terminale, Stella variabile, dove, secondo Pier Vincenzo Mengaldo, «i temi della morte e del sogno, della pre-morte e del dormiveglia si omologano definitivamente» e dove «la ricerca di autenticità che prima si dava ancora come esplorazione dello spessore umano della città di vita e di lavoro, qui si dà ormai solo come evasione, spaesamento». Al poeta restano pochi mesi di vita. Persuaso che solo parlando del passato la poesia possa additare un futuro, è costretto ad ammettere che per lui il futuro è muto, come la verità. Intorno a lui, tutto viene smemorandosi e travisandosi in un modello di società e in uno stile di vita di cui ha còlto la matrice senza poterne presagire la compiutezza, la sinistra normalità. Da essa promana una acustica invadente, una oltranza ubiquitaria, una violenza di rapporti individuali e sociali che c’è da immaginare inammissibili per un uomo così civilmente riflessivo, così silenziosamente partecipe dei destini generali. E però l’aveva intuito una volta per sempre, tutto si sarebbero ingoiato le nuove belve.