In un brevissimo epigramma (tre versi introdotti da un titolo ironicamente lapidario: C’è un Montale per tutti) Giorgio Caproni asseriva che «ciascuno ha il suo Montale, ritagliato a misura. / Vale quello che vale, / secondo natura e statura». Nel 1976 lo «scherzetto» caproniano rimarcava, a ottant’anni dalla nascita del poeta genovese, sia la varietà di una produzione che dagli Ossi di seppia a Satura ha mutato tono, modelli e forme, sia la centralità della lezione poetica di Montale per il nostro Novecento.

Va da sé che in un volume rivolto a indagare la tradizione novecentesca, pur attraverso sondaggi mirati e metodi d’indagine molteplici (lo studio dell’intertestualità, il rilievo stilistico, l’analisi delle fonti), Montale assuma una funzione-cardine, o meglio quasi il ruolo di una stella fissa attorno a cui gravita la costellazione dei successivi. È appunto quanto emerge dall’ultimo volume di Niccolò Scaffai, Poesia e critica nel Novecento Da Montale a Rosselli (Carocci editore «Frecce», pp. 240, € 24,00), nel quale la relazione tra poesia e critica è osservata nella convinzione che la stessa scrittura in versi rappresenti un esercizio spesso «autocritico: quasi un esame di coscienza». Diviso in due parti, la prima si rivolge alla lirica, la seconda alla scrittura critica dei maestri del secolo scorso, ma il costante raffronto con la lezione montaliana sviluppa una forte linea di coerenza interna, anche nei saggi dedicati alla scrittura degli autori apparentemente più distanti, a livello formale e di poetica, dal modello «forte». Non si tratta infatti di impostare una «verifica dei debiti» né di procedere a una «ricerca meccanica delle fonti»: lo studio dei rapporti intertestuali, nei saggi di Scaffai, ricostruisce piuttosto le forme di un’eredità che si sviluppa secondo diramazioni complesse e si rivela talvolta per antitesi.

È il caso di Franco Fortini, che assumendo l’impegno di contro all’epochè dell’ultimo Montale vi si confronta implicitamente, o dei meccanismi di «adesione e distanza» dal modello di Giovanni Raboni, di cui si può cogliere l’evoluzione tra Le case della Vetra e Barlumi di storia in una maggior predisposizione al racconto di sé che deve non poco, ancora una volta, a Satura.

Il libro del 1971 resta comunque poco amato di fronte ai capolavori del Montale «centrale»: nel volume di Scaffai emerge allora un altro dato, relativo al ruolo cruciale delle Occasioni nel determinare la tradizione successiva. Basti pensare all’attenzione che due lettori d’eccezione, Pier Vincenzo Mengaldo e Luigi Blasucci, dedicano a questa raccolta – per cui il primo vede in Montale, nel suo superamento del modello dannunziano, la «radice di un nuovo albero genealogico novecentesco», come ricorda Scaffai, mentre il secondo vi individua l’eredità più determinante, cioè la capacità di autorizzare l’ingresso dell’oggetto in poesia senza il tramite ironico.

Anche in lirica deflagra, insomma, la realtà: esempio immediato ne è l’opera di Giorgio Orelli, che appunto «in Montale sentiva rivivere l’oggetto», alla cui poesia il volume dedica un affondo indagando la «portata stilistica complessiva» dell’adesione alle Occasioni, fra riuso del loro tipico «modulo epifanico» e ricorso alla «nominazione» dei realia. In tal senso, il saggio orelliano fa pendant con le pagine rivolte alla lirica di Federico Hindermann, ulteriore testimonianza della fortuna di Montale presso gli autori svizzeri che stavolta rivela però un ingaggio più frontale del modello. Forse meno preoccupata di disinnescare eventuali accuse di epigonismo, in questa poesia agisce una «sorta di sincretismo che attira alcuni luoghi proverbiali, riformulandoli in un contesto nuovo»: ecco, dunque, la vera e propria tessera («(…) con noi nello specchio / ustorio dell’istante») e l’allusione smaccata («e dai capelli / ti soffio via adesso / queste prime piume di ghiaccio», entrambe da Nontiscordardimé, del 1984, con evidente rimando a Nuove stanze e al mottetto della Clizia visiting angel).

Ad aprire il volume è comunque il saggio dedicato all’erede per eccellenza della lezione di Montale, Vittorio Sereni, a cui il poeta ligure ha offerto, più che una tecnica, una «chiave per leggere nell’universo». Riprese puntuali, moduli epifanici, elenchi nominali convergono nel «punto di massimo (…) avvicinamento di Sereni all’immaginario montaliano»: Ancora sulla strada di Zenna, luogo non a caso centrale negli Strumenti umani a cui Christian Genetelli ha dedicato una puntuale lettura per la serie delle «Bussole. Poesia» di Carocci (Sereni: Ancora sulla strada di Zenna, pp. 104, € 13,00). Sono celebri i versi che prestano al poeta il titolo della raccolta del 1965: «ma l’opaca trafila delle cose / che là dietro indovino: la carrucola nel pozzo, / la spola della teleferica nei boschi, / i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità (…)», dove si moltiplicano echi degli Ossi e delle Occasioni (ma Genetelli allarga i riscontri anche alla Bufera scavando ben oltre il «montalismo patente» di certi passaggi, come l’immediatamente riconoscibile «osso breve» Cigola la carrucola del pozzo…). La chiave di lettura che orienta lo sguardo sereniano, prestata dal maestro, consiste proprio in un nuovo modo di guardare (magari decifrandola) la realtà: se è vero che «c’è un Montale per tutti», quello di Sereni ha senz’altro lasciato alla nostra poesia più recente un’altra cruciale, longeva eredità.