Dopo la morte di Vittorio Sereni, nel febbraio del 1983, il suo archivio privato rivelò un contenuto eccezionale per ricchezza e complessità. Dante Isella, che ‘scoprì’ e utilizzò quei materiali per l’edizione critica delle Poesie sereniane nei «Meridiani» (’95), ne dette conto nell’Avvertenza all’apparato del volume: «La sovrabbondanza di materiali documentari, (…) e la varietà delle situazioni che ne emergono, molto diverse da testo a testo, hanno comportato fin dalle fasi preliminari problemi di ogni tipo». Nell’archivio risalta anche la grande quantità di lettere, che lo stesso Isella utilizzò per l’edizione (sull’esempio di quanto avevano fatto Contini e Bettarini per l’Opera in versi di Montale), traendone non solo informazioni sulla stesura dei testi e ulteriori varianti, ma anche note di autocommento. Nel corso degli anni, i documenti epistolari emersi dai fondi sereniani, e da quelli dei suoi corrispondenti, hanno dato origine a una cospicua serie di carteggi, che costituisce ormai un filone tra i maggiori negli studi sul poeta (lo stesso vale anche per molti altri autori novecenteschi), destinato a proseguire con nuovi importanti contributi: si attende per esempio il carteggio Fortini-Sereni, che promette di diventare un sestante del nostro Novecento letterario.
Su queste pagine ho dato conto non molto tempo fa dell’edizione delle lettere tra Sereni e Betocchi («Alias Domenica», 6 gennaio 2019). Alla bibliografia si aggiungono ora due volumi che testimoniano dello scambio con altri due poeti maggiori nel canone contemporaneo: Giorgio Caproni-Vittorio Sereni, Carteggio 1947-1983, a cura di Giuliana Di Febo-Severo (Olschki, pp. 219, euro 25,00) e Roberto Roversi-Vittorio Sereni, «Vincendo i venti nemici» Lettere 1959-1982, a cura di Fabio Moliterni (Pendragon, pp. 137, euro 16,00). Volumi come questi, per l’importanza dei corrispondenti, sono necessari per integrare la mappa letteraria del Novecento. D’altra parte, la stessa ampiezza e varietà dell’epistolario sereniano, inevitabilmente distribuito in pubblicazioni diverse per sedi e criteri, pone delle questioni e mette in luce delle esigenze. La prima è quella di uniformare, per quanto possibile, i protocolli: non tanto o non solo quelli propriamente filologici, ma soprattutto quelli critici, che intervengono in particolare nella stesura del commento. A quali aspetti dare rilievo nell’annotazione, con quali altri testi d’autore far reagire il corpus epistolare, e come? Qualsiasi risposta si scelga di dare, non si può prescindere da una riflessione sullo statuto delle lettere; posto che quelle di autori contemporanei sono testi in origine quasi sempre privati e funzionali, un commento deve recepirne la natura ausiliaria e quindi limitarsi a dare le necessarie informazioni contestuali e sottolineare gli elementi utili alla lettura e all’interpretazione dell’opera creativa? Oppure bisogna attribuire alle lettere di un autore lo stesso valore delle sue poesie e, dunque, commentarle non in funzione di altro, ma per di sé e attraverso altre lettere?
Questa seconda opzione, favorita dalla stessa ricchezza e quantità dei carteggi a cui accennavo, implica un’altra questione fondamentale per ogni critica della letteratura, non solo contemporanea: quanto conta il vissuto di un autore, spesso direttamente richiamato dalle sue lettere, e quale grado di autonomia e uguaglianza di valore siamo disposti a riconoscergli, rispetto all’opera? Nella pratica, è impossibile e forse sbagliato escludere rigidamente l’una o l’altra opzione, separare la scrittura dall’esperienza. Eppure, non si può fare a meno di porsi domande di questo genere leggendo in particolare il carteggio Caproni-Sereni. L’annotazione dei settantasette pezzi (per la maggior parte di Caproni), infatti, consiste spesso nella citazione di passi paralleli da lettere con altri corrispondenti. Ne risulta una certa sovrabbondanza, che sarebbe stata evitabile. D’altra parte, la centralità e la prossimità dei due protagonisti, illustrate da Di Febo-Severo nel lungo saggio introduttivo, giustificano la tentazione di far confluire nel loro dialogo frammenti di altri colloqui. Certo, quando si sfogliano le lettere di due tra i maggiori poeti del secondo Novecento vi cerchiamo delle risposte, delle ‘chiavi’ che qui (come del resto nel carteggio di Sereni con altri suoi compagni di strada della terza generazione: penso a Luzi, in particolare) non troviamo. Però riconosciamo i valori, cari a Sereni, della cortesia come forma dell’amicizia e della gioia come consolazione dalla fatica del lavoro.
Vale la pena citare i brani di due lettere del 1965, l’anno mirabile in cui videro la luce il Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni e Gli strumenti umani di Sereni: «Carissimo Giorgio» scrive Sereni il 28 marzo «letto e riletto sùbito le tue nuove poesie. Deliziandomene e disperandomene. Non capisco come non si possa, non si debba averne gioia ed esserne feriti quasi insieme. (…) Questo mi piace: che tu sia imperterrito davanti a tutto (ai discorsi e al resto), a tutto fuorché alla vita». Il 10 ottobre, con la sua copia degli Strumenti fra le mani, Caproni ringrazia l’amico «del libro (e della calda dedica). Sto leggendolo» prosegue «pagina per pagina, con quell’indicibile trasalimento che sempre, nel profondo, mi ha dato la tua poesia».
Poesia e lavoro: i due termini, legati in una reciproca implicazione nella poetica sereniana, sono i poli opposti di una tensione esistenziale che nei carteggi si manifesta spesso senza filtri. Così anche nelle lettere con Roversi, che procedono nel tempo tra slanci e ripiegamenti, questi ultimi spesso dovuti all’affanno di doversi talvolta rivolgersi all’interlocutore da direttore editoriale, anziché da poeta o amico. Nel carteggio, costituito da cinquantotto lettere (trentacinque di Sereni) e due telegrammi, emerge – come spiega bene Moliterni nell’Introduzione – «un sentimento o un assillo» rintracciabile anche in altre parti dell’epistolario sereniano, oscillante «tra la sottovalutazione di sé e l’idealizzazione dell’altro». Del resto, Roversi sembra condividere un’idea d’amicizia che include la poesia e che è scampo dalle cure. Insieme ai progetti e agli inviti a partecipare alle rispettive imprese (come le riviste «Questo e altro» e «Rendiconti»), i corrispondenti si scambiano opinioni, giudizi – è Sereni, in questo caso, a confessare nell’ultima lettera di aver «sempre provato una certa soggezione» nei riguardi di Roversi, «senza sapersela spiegare» (7 giugno ’82) – e autocommenti preziosi. A proposito dei versi della sua Appuntamento a ora insolita, ad esempio, Sereni scrive: «“È a questo che penso se qualcuno / mi parla di rivoluzione”. Qualcuno mi ha detto che poteva parere spregiativo o deprezzativo (…). Non è il senso che ho voluto dare, che è solo la rivoluzione come gioia» (3 ottobre ’61).
Non mancano gli “intermezzi editoriali”, specialmente a proposito del passaggio di Roversi a Rizzoli; ma anche in questo caso, i toni sono più accorati che bruschi: «La verità è che io tenevo a – come si dice? – ad annoverarti tra gli autori validi della Casa. Il solo gusto che si può avere da questo lavoro è di fare dei libri nei quali si creda» (13 aprile ’64). Tra le lettere importanti, anche rispetto alle questioni evocate all’inizio sul rapporto fra l’opera e l’epistolario di un poeta, è necessario citare quella che Sereni scrive il 25 maggio 1967: «Mi è già capitato di dire che sembra questo il mio limite e di buona parte della mia generazione: l’inclinazione a vedere i grandi fatti del mondo, e mettiamoci pure i più grandi ed abnormi, come lo sfondo di una nostra storia privata, più o meno intensa e squisita». «Purché si avesse una storia comunque / – e intanto Monaco di prima mattina sui giornali / ah meno male: c’era stato un accordo – / purché si avesse una storia squisita tra le svastiche / sotto la pioggia un settembre», scriverà Sereni in una poesia del suo ultimo libro, In una casa vuota (da Stella variabile), mettendo appunto in attrito ‘storia privata’ e ‘fatti del mondo’.