Continua a preoccupare la nuova ondata di contagi in Serbia. Nelle ultime 24 ore si sono registrati 9 decessi e 389 nuovi casi, più di 20mila dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Il picco di contagi ha costretto le autorità serbe a disporre ulteriori misure restrittive in tutto il Paese, tra cui l’obbligo anche per i bambini di indossare la mascherina e il divieto di assembramento di più di dieci persone in luoghi pubblici e all’aperto, inizialmente previsto solo a Belgrado.

Per l’epidemiologo Predrag Kon dell’unità di crisi del governo che gestisce l’emergenza sanitaria, le misure prese hanno già avuto l’effetto di rallentare la diffusione del virus. Migliora l’andamento epidemiologico a Novi Pazar, una delle città più colpite dall’emergenza sanitaria, e a Sabac. Critica invece la situazione a Belgrado che Kon ha definito una «bomba potenziale».

Qui, ha spiegato l’epidemiologo in un’intervista all’emittente Rts, «il coronavirus ha rotto gli argini», contagiando un gran numero di persone. Secondo Kon nei giorni scorsi a Belgrado si sono registrate più di 13mila persone con sintomi di infezioni respiratorie. Delle quasi tremila persone sottoposte a controlli, circa un terzo è risultato positivo. La presenza del virus inoltre è stata poi rilevata in cinque scuole materne della capitale.

«Sintomi più gravi e pazienti più giovani. La seconda ondata è senza dubbio peggiore della prima». Questo è il bilancio della situazione a Belgrado di una dottoressa del centro clinico ortopedico di Banjica, convertito in larga parte in ospedale covid. Raggiunta dal manifesto, accetta di parlare in condizione di anonimato: «Negli ospedali della capitale si fatica a trovare posti letto liberi. I casi sospetti di covid si sono riversati qui da ogni angolo della Serbia, in particolare da Novi Pazar.

Poi i contagi sono esplosi anche a Belgrado e si è venuto a creare una sorta di tappo: ora i pazienti con sintomi lievi vengono trasferiti verso altri ospedali in provincia, qui restano i casi più gravi».

Rispetto alla prima ondata il personale sanitario è meglio attrezzato, non mancano i dispositivi di protezione, ma l’aumento esponenziale dei contagi ha creato una forte pressione sul sistema sanitario che secondo la dottoressa sarebbe prossimo al collasso: «Siamo arrivati a un punto in cui siamo costretti a utilizzare l’ossigeno solo se strettamente necessario. I pazienti ricoverati poi vengono invitati a lasciare l’ospedale appena si sentono meglio, anche se sono ancora positivi.

E poi manca il personale: qui ci sono solo 30 dottori per 300 pazienti, un numero troppo basso per fronteggiare una simile emergenza».

L’ondata di contagi si è abbattuta in Serbia a ridosso delle elezioni parlamentari dello scorso 21 giugno. Di fronte all’aumento dei casi il presidente serbo Vucic aveva proposto prima la chiusura dei campus universitari, poi la reintroduzione del coprifuoco a Belgrado.

Due annunci che hanno scatenato le proteste dei cittadini che sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente. Le autorità – è l’accusa, suffragata da un’inchiesta del portale d’informazione Birn – hanno nascosto i dati reali del contagio per andare al voto. Vucic però ha accusato a sua volta i manifestanti di aver aggravato la situazione.

«Queste proteste ci sono costate, ha dichiarato il presidente in un’intervista all’emittente filogovernativa Tv Pink. Ci sono costate il prezzo più alto possibile. Ci costano la vita di cittadini e medici. L’irresponsabilità di qualcuno è andata così lontano da disinteressarsi davvero dei cittadini e degli operatori sanitari. Stiamo parlando di chi non ha nemmeno costruito un ospedale in 30 anni». Parole destinate a far discutere.