Come un’orchestra in cui ogni elemento segue il proprio spartito. Così il mini vertice dei Balcani co-presieduto a Berlino dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron, non ha fatto altro che generare una cacofonia di suoni discordanti. Il summit cui hanno partecipato i leader degli Stati balcanici, inclusi Slovenia e Croazia, oltre all’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini, puntava soprattutto a riportare all’ordine una situazione andata fuori controllo. Focus del meeting è stato il maggior elemento di destabilizzazione della regione, la crisi del dialogo tra Serbia e Kosovo.

Una crisi che ha origine la scorsa estate quando si è aperta la discussione su un accordo di scambio di territori (e popolazioni) tra Belgrado e Pristina. Alla Serbia il Kosovo del nord, popolato in maggioranza da serbi, al Kosovo la valle di Presevo, Serbia meridionale, a maggioranza albanese.

Accordo che peraltro non implica nessun impegno da parte di Belgrado a riconoscere quella che considera ancora una sua provincia.

La sola discussione di una simile proposta è bastata a far surriscaldare la regione. Da mesi si assiste a un’escalation di tensione, culminata nell’imposizione di dazi doganali del 100% sulle merci serbe (e bosniache) da parte delle autorità di Pristina. Una misura di ritorsione contro le politiche ostili dei vicini, rei di non riconoscere l’indipendenza del Kosovo e di ostacolarne l’ingresso negli organismi internazionali. La proposta sullo scambio dei territori, presa in considerazione e subito scartata già nei negoziati di pace che hanno messo fine alla guerra in Kosovo nel 1999, sottintende il principio: uno Stato, un’etnia. Principio che nelle guerre nei Balcani degli anni Novanta si è tradotto in un’aberrante campagna di pulizia etnica combattuta a suon di massacri, stupri e genocidi. Eppure la proposta ha trovato il sostegno di due importanti interlocutori: Washington e Mosca, la prima interessata a diminuire la propria presenza nei Balcani, la seconda a far valere quel precedente in Crimea e Trasnistria.

Ed è soprattutto la svolta degli Stati Uniti a pesare sugli equlibri precari della regione. Una svolta arrivata con la nomina un anno fa di John Bolton a consigliere della sicurezza nazionale. Detrattore del multilateralismo e convinto assertore dell’America First, il falco ha sostenuto che una correzione dei confini rifletterebbe una situazione politica ed etnica già esistente sul territorio. Ed è a Russia e Stati Uniti che la cancelliera tedesca voleva mandare un segnale con il vertice di Berlino. Obiettivo di Merkel era di seppellire una volta per tutte l’idea dello scambio di territori. Il ragionamento della cancelliera è che un accordo di questo tipo aprirebbe il vaso di Pandora delle rivendicazioni nazionaliste. E, aggiungiamo noi, non solo nei Balcani.

Dove, di fatto verrebbero cancellati due Stati della regione, la Bosnia, suddivisa tra Croazia e Serbia e ridotta a un’enclave musulmana, e la Macedonia del Nord, la cui comunità albanese, pari a un quarto della popolazione, potrebbe sempre più anelare al ricongiungimento con l’Albania. Un rischio che ha spinto Merkel ad affermare con forza il principio di inviolabilità dei confini. Ma il suo spartito non è stato però lo stesso di Macron. Il partner francese ha giocato sul filo dell’ambiguità, dichiarandosi aperto a tutte le soluzioni possibili e precisando, solo dopo e a porte chiuse, che tali soluzioni non avrebbero dovuto essere foriere di tensioni. Anche perché la priorità di Macron era piuttosto di consegnare ai leader dei Paesi balcanici un altro messaggio, ben più scoraggiante.

L’Europa, assente dalla regione ormai da dieci anni, ritornerà per sostenere il processo di riforme dei diversi Stati, ma non nell’ottica di un allargamento almeno in un futuro prossimo. L’avvertimento vale anche per Albania e Macedonia del Nord, nonostante il costo salato che quest’ultima ha dovuto pagare pur di accedere alla fase finale dei negoziati di adesione.

Altro spartito per l’Alto rappresentante Mogherini che in questi mesi ha sostenuto la praticabilità dell’accordo sullo scambio di territori pur di chiudere la partita Kosovo-Serbia entro il suo mandato.

Alla fine sarà il «discusso» a dir poco Hashim Thaqi, presidente del Kosovo, a riassumere i risultati del vertice. «Senza la partecipazione degli Stati Uniti, non vi può essere alcuna intesa, la Ue fin qui si è rivelata incapace». Dichiarazione che non solo fotografa i rapporti di forza sul campo, ma che sembra sancire la crisi profonda del multilateralismo e di un Occidente sempre più spaccato.