Come è cambiata la creatività, ma più in generale come si è configurato il pensiero visuale negli ultimi trent’anni con il predominio dei nuovi media nel campo dell’arte o meglio delle arti? Il saggio di Serafino Murri, Sign(s) of the Times (Meltemi, pp. 425, 26 euro), tenta di rispondere a questo e ad altri quesiti, attraverso un lungo viaggio in quel dominio che, fin dal sottotitolo del libro, viene definito della «soggettività digitale».

Già autore di alcune monografie di cineasti, regista lui stesso di film a soggetto e documentari, Murri tuttavia non ha solo scritto un volume teorico che affronta un tema specifico ma – indagando questo aspetto centrale per individuare modalità, figure e opere delle nuove tecnologie applicate all’arte – ha pubblicato qualcosa che si avvicina molto a un manuale di storia dei media degli ultimi decenni, con molteplici esempi ma anche riferimenti tecnici puntuali e dettagliati, molto utili per far comprendere a un pubblico variegato – attraverso un linguaggio chiaro ma forbito e ricco di informazioni – l’evoluzione di quella che Peter Weibel ha giustamente chiamato «condizione post-mediale», caratterizzata dal fatto che nessuna forma d’arte predomina sull’altra. Anche se poi – come ci hanno insegnato teorici quali Manovich, Bolter e Grusin – il software e il computer costituiscono il supermedium che ha inevitabilmente finito per ri-mediare e rielaborare tutti i media.

Suddiviso in due parti, rispettivamente di sei e di cinque capitoli ciascuna, Sign(s) of the Times parte da una premessa, e cioè che la moda dell’autoproduzione (pro-sumer) incoraggiata dall’uso dei dispositivi tecnologici di massa, l’uso spontaneistico, l’arte espansa (definizione coniata da Perniola), se da un lato ha incrementato la fertile tendenza all’opera partecipata, all’autocomunicazione e al media-self, dall’altro ha finito col banalizzare e appiattire il pensiero visuale su un’effettistica codificata. Da qui la necessità di rintracciare quelle pratiche creative virtuose nell’universo digitale. In ogni caso nella logica della rete è totalmente cambiato il concetto di autorialità e di opera, amplificando la varietà di procedimenti legati al remix, al mashup e alla infinita rielaborazione di materiali pre-esistenti.

La prima parte del volume, intitolata Estetica del pensiero visuale e soggettività digitale, ricostruisce soprattutto storicamente e teoricamente il concetto di visualità, partendo da Arnheim, ma soffermandosi anche sugli spunti forniti dalla bilogica di Ignacio Matte Blanco, analizzando il rapporto tra razionalità ed emozione nell’esperienza estetica in generale, e in quella ancor più frammentaria e rizomatica del web in particolare. Al centro della prima parte dell’indagine di Murri vi sono soprattutto i contenuti user-generated, cioè prodotti dagli utenti stessi della rete che, nel bene e nel male, alimentano il sistema e generano enormi profitti per le Major della Rete a costo zero.

Ma vi è soprattutto la mappatura dei molteplici aspetti e delle ripercussioni estetiche della seamless communication, dello statuto relazionale e interconnesso che rende la «soggettività digitale» – come afferma Pietro Montani, una vera e propria «forma di vita ibrida», e non un semplice insieme operativo ed estemporaneo tra elemento umano e Intelligenza Artificiale. Nella seconda parte, intitolata Prassi estetica dell’infosfera, Murri passa in rassegna autori e opere che fanno parte dei diversi e molteplici ambiti dell’arte digitale: dalla realtà aumentata a quella virtuale, dalla computational imaging all’installazione interattiva, dal post-cinema alla serialità, dalla sperimentazione sonora al music video: tutte le sfaccettature esperienziali dell’arte digitale in cui è coinvolta la soggettività HCI nel suo riformulare costantemente i confini della sua percettività.

Tra gli artisti più citati della nuova scena tecnologica nel testo, figurano il designer interattivo Aaron Koblin, il fotografo e videomaker e produttore di VR Chris Milk, e l’artista digitale Scott Snibbe, creatore di «Concept-App» come Biophilia di Bjork.

Adorno ma anche Emilio Garroni restano due classici punti di riferimento dell’architettura teorica di Murri, ma la moltitudine di citazioni e riferimenti desunti dalla filosofia alla cibernetica, dall’estetica alle neuroscienze, dalla psicanalisi alla teoria economica fino ai visual studies, denotano la solidità di un discorso vivacemente multidisciplinare. Se le premesse del libro possono apparire «apocalittiche», le conclusioni non sono certo all’insegna dell’«integrazione»: sottolineano piuttosto come e quanto, dagli esempi fatti, si possano utilizzare le nuove tecnologie affrancandosi dal culto tecnologico massificato, adottando e codificando una grammatica critica e consapevole dove la scrittura sia la sola techné possibile.