Ritorno a Seoul. Quante aspettative può prometterci un posto? Il compito è assolverle o lasciarle andare in via del tutto organica. La prima volta ero in viaggio con uno zaino, ora sono in una sorta di quotidianità con scartoffie, fusi orari, lezioni di coreano e tentativi di creare una vita sociale dentro una città senza fine.

Il mio racconto di viaggio collima con rituali simili a qualsiasi persona del luogo o a qualche nomade digitale ansioso e profondamente solo: tutti affascinati da questo stile di vita ma io sto in uno scantinato puzzolente a mandare mail. Mi scrollo di dosso l’orientalismo spiccio che filtra tutto quello che l’occhio vede e penso a quel gruppo in gita di venti italiane dai 20 ai 60 anni, corrose da k-drama e k-pop, notate sull’aereo, pronte a verificare l’esistenza di bellimbusti analoghi e il confine tra mondo posticcio e bieco realismo. Sono finita in una tendenza ma vale la pena decostruire, come ogni fenomeno umano e paranormale, questa infatuazione diffusa per la Corea del Sud.

Ai tempi di Kim Ki Duk, in anni in cui eravamo persi tra Old Boy e Ferro3, c’era anche chi ignorava dove fosse questa penisola stretta tra giganti e con un fratellastro al Nord; ricco di tradizione, lati nerissimi e controversi.

Oggi resistere alle compere è impossibile, a meno che non si abbia un solido codice anticapitalista (fa ridere già così), l’apertura al mondo al di là della penisola è solo in termini di business, tecnologia, esportazione di prodotti culturali di massa, la bellezza antica non arriva sempre a chi si accalca nei corsi per studiare la lingua, le dinamiche relazionali fluttuano tra un Fantozzi più cerimonioso e «Sedotta e Abbandonata».

L’Europa pensata da qui è un fantasma che si aggira su sé stesso e sorride davanti agli appuntamenti al buio con ragazzi buffi e depressi, coreani di passaggio, mai più rivisti, perché non si deve credere alle promesse di uno stallone italiano a una turista tedesca sul bagnasciuga di Rimini, neppure se assomiglia a qualche manichino di drama e comunque, alle 11.50 gli impiegati si riversano già sulle strade per il pranzo sfrugugliando i bracieri del barbecue, con i cartellini aziendali penzolanti sul petto. Quanto imprevedibile Eros tra le onnipresenti videocamere di sorveglianza! Preferisco rimanere tra i gates della metropolitana, ricchi di cibo e di abbigliamento, e con qualche collegamento agli hotel, potrei fare la Parisi in «Grandi Magazzini», perdendo le mie lenti a contatto e immaginando di non essere in uno scantinato, oppure scavare a mani nude una buca sul monte Ansan e adagiarmici come fanno i cani quando hanno freddo.