A ogni lettura o rilettura – considera Jorge Luis Borges – il libro si rinnova ed è un altro. L’autore di Fervore di Buenos Aires individua nell’acqua la metafora naturale del tempo e ricorre più volte nei suoi scritti alla citazione prediletta del filosofo oscuro – «Siamo il fiume di Eraclito» – secondo cui non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume e neppure toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato. Tutto scorre e niente sta fermo, ciò che alimenta il mondo è il suo continuo mutare delle cose.

In Senza ritorno di Carmen Yañez Hidalgo (Guanda, pp. 138, euro 15, traduzione di Roberta Bovaia) il tempo e l’acqua alimentano una poesia che «colpisce con i suoi sassolini d’acqua le finestre dei tempi». Tutto ha origine in un lutto cronico («In un sospiro è morto il mio paese») conseguente alla perdita della casa e della patria. «Yáñez scrive per tutti coloro che si sono smarriti almeno una volta» scrive nell’introduzione al libro Alejandro Céspedes, che per primo accosta Senza ritorno all’aforisma del filosofo greco.

PER CHI HA CONOSCIUTO sulla propria pelle la dittatura, per chi ha dovuto affidare la sopravvivenza all’esilio, i confini non sono più una linea d’alba a contenimento della vita: inevitabilmente la terra (che «non sa di avere limiti») scopre le sue «frontiere di paglia». È la «cocciuta nostalgia» che ti fa ancora cercare «su Google Earth» la casa, la piazza, la strada che un tempo erano tue. Tuttavia, nella vita di chi è costretto a fuggire, la «biglietteria del ritorno» diventa troppo difficile da raggiungere e la valigia («quella di tutti gli asili») va disfatta per sempre.

La poesia di Carmen Yañez è testimoniale e, come lei stessa definisce, impregnata di vissuto: classe 1952, nata a Santiago del Cile, nel 1975 fu sequestrata dalla polizia di Pinochet e torturata nella tristemente nota Villa Grimaldi. Rimase in stato di clandestinità («l’unica cosa che agognavo nelle lunghe notti dell’esilio era tornare a casa, trovare mamma e sentire l’odore del suo grembiule fino a morirne») fino a quando, nel 1981, passando dall’Argentina e sotto protezione dell’Onu, non arrivò in Svezia, paese che l’accolse per sedici anni. Oggi vive a Gijón, Asturias, in cui si trasferì nel 1997 assieme al suo compagno di vita, Luis Sepúlveda, scomparso lo scorso aprile.

IN YAÑEZ la poesia è attivista. La posizione dell’autrice rispetto al testo è di chi non dimentica (il mestiere di guardare la crepa che ha lasciato la battaglia»), non si abbandona al rimpianto e neppure cede alla riconciliazione che azzera la storia. C’è Allende, ci sono i desaparecidos, c’è Reinalda Pereira e ci sono Gloria Ester, Cecilia, Ximena, Nalvia Rosa, donne «spogliate dell’innocenza». La poesia – «la pazza dei tempi» – si lascia molta strada alle spalle perché cammina e cammina, salda e alleata. È proprio il binomio memoria e poesia – rivelerà l’autrice in un’intervista di Rosa Ruiz – quel balsamo necessario a una vita perennemente alla ricerca di giustizia.

Se, come considera Juan Martini, il nodo dell’esilio sta nella lingua, la versione italiana di Senza ritorno lascia apprezzare le sonorità del testo originale a fronte. La parola è fluida, tangibile, domestica; efficace perché leggera («La piuma che vola sullo sterco»), anche quando incompiuta e perduta. E prende bene la mira: quando qualcuno cerca di cambiare nome alle cose della storia – regime militare è la definizione con cui la storiografia vuole dimenticare la dittatura che in Cile si è inghiottita oltre 40mila desaparecidos – abbiamo anche bisogno che la poesia «metta un dito nell’occhio dell’incredulo».