L’artista e regista inglese Sam Taylor-Johnson (Londra 1967, vive e lavora tra il Regno Unito e Los Angeles) ha presentato, nella sua personale alla galleria Lorcan O’Neill di Roma (visitabile fino al 26 marzo 2023), la serie Wired, fotografie a colori realizzate nel 2020 nell’ambito di un lungo processo che ha portato l’autrice ad autoritrarsi nell’iconico Parco nazionale di Joshua Tree in California. «Momenti in cui sento di avere i piedi per terra, ma allo stesso tempo allungo le braccia per cercare di avvicinarmi a una dimensione diversa», afferma Taylor-Johnson. La sua mostra è stata anche l’occasione per una conversazione sul suo modo di lavorare e interpretare l’arte.

Sam Taylor-Johnson, dalla serie «Wired», 2020

Nella serie «Wired», come in «Self-portrait in Single-breasted Suit with Hare» (National Portrait Gallery di Londra) c’è l’idea di svelare il trucco. In quel caso era il cavo per scatto remoto, in queste foto le gru e i cavi d’acciaio per la sospensione: sono dispositivi meccanici che enfatizzano le dinamiche psicologiche?
Sì, è proprio così. Nella mia prima mostra alla galleria Lorcan O’Neill (Sex and Death and a Few Trees nel 2005, ndr) esposi alcune immagini del ciclo Self Portrait Suspended in cui fluttuavo in uno spazio etereo. Lì era molto più presente l’idea di essermi liberata dai vincoli, lasciando andare ogni cosa. Non sono sulla terra, sto semplicemente in bilico. Invece, in altre opere, come Bram Stoker’s Chair, oscillo sopra una sedia che non proietta alcuna ombra. È una costruzione fragile e in Escape Artist (Multicoloured) i palloncini colorati sono associati a un’immaginazione speranzosa, rispecchiando un periodo in cui non mi sentivo a mio agio. Volevo volare via con quei palloncini! Un tentativo di fuga ironico, che alleggerisse la situazione. Ora, con queste immagini, mi sento di mostrare tutti gli elementi che mi sostengono mentre sono sospesa. Ma c’è voluto tanto tempo per costruire questo mondo. Ho realizzato le foto in cinque anni e ho avuto bisogno di sei mesi per ripulirle, togliendo ogni dettaglio con Photoshop: gru, cavi d’acciaio, persone e il resto. Quando, poi, le ho mostrate alla mia amica Tracey Emin lei mi ha fatto notare che il fatto che parlassi sempre del tempo che avevo impiegato per realizzarle voleva dire che era importante per me. «Allora perché non rimetti tutti i dettagli?», mi disse. Certo, bisognava vedere tutto, quindi ho revisionato il lavoro, scegliendo le foto che avessero una certa composizione, quei momenti felici in cui i singoli elementi sono in armonia. In un certo senso, sono immagini oneste.

Sam Taylor Johnson. Foto di Manuela De Leonardis

A proposito degli oggetti: quanto è determinante la loro presenza nella forza del racconto? Se in «Self-portrait in Single-breasted Suit with Hare» la lepre impagliata giocava sull’ambiguità della tradizionale lettura iconografica associata alla lussuria, ma che in quella foto aveva a che fare con il cancro al seno e la perdita dei capelli durante i trattamenti di chemioterapia, in «Wired» qual è il significato dei vari oggetti?
Le scarpe da ginnastica sono quelle che ho messo ogni giorno per le lunghe camminate nella natura, quindi sono le mie scarpe creative (sorride). Le indosso nel momento in cui sto pensando, quindi sono quasi l’anima dell’idea («the soul of the idea» gioco di parole con «the sole of the idea», la suola dell’idea che in inglese ha la stessa pronuncia, ndr). La volpe o la lepre è come se fossero delle brevi annotazioni che si riferiscono ai lavori precedenti e che ritornano, riferendosi a momenti personali.

Esiste una differenza tra questi oggetti personali e la presenza, in altre opere come «The Moon», «The Magician» o «The World» di un’iconografia che ricorda quella dei tarocchi con le tre civette su una scala di legno o l’albero capovolto?
Sono come icone di pensieri. Il corvo sulla sedia, ad esempio, è un simbolo molto inglese che mi ricorda la mia infanzia, i corvi che volano sulla Torre di Londra. È anche un elemento molto cattolico, infatti c’è un uccello centrale sulla sedia illuminata ma, guardando attentamente, ci si accorge dell’altro uccello in ombra: è la dicotomia tra luce e oscurità. Nell’albero capovolto sembra, invece, che le radici siano più importanti dei rami. Mi piace il collegamento con i tarocchi perché conferisce alle immagini un aspetto più spirituale e allegorico. È come se fossero collegate l’una all’altra, proprio come nelle carte dei tarocchi, ma conservano anche la loro storia individuale.

Come si è relazionata al Parco nazionale di Joshua Tree, in California, molto citato sia nella fotografia (da Ansel Adams a Herb Ritts) che nel cinema, dove la natura possente e incontaminata è la vera protagonista della scena?
Sono un’inglese che vive a Los Angeles e mi sento un’aliena. Invece, quando vado a Joshua Tree sono collegata al mondo, sto bene, non mi chiedo chi sono e da dove vengo. Ci sono alberi antichissimi che hanno un aspetto selvaggio, sembrano provenire da un altro pianeta. Ogni albero è poi collegato sottoterra con gli altri, è come se ci fosse una comunità sotterranea di supporto. Questo concetto è analogo a quello delle gru che mi aiutano nelle sospensioni.
La mia è come una performance all’interno di un mondo magico. Trattandosi di un’area protetta non è stato facile trovare il luogo giusto in cui fotografare senza disturbare la natura. Inoltre, Joshua Tree è una terra incredibilmente fotogenica. È come un palcoscenico in cui tutti gli elementi entrano in scena. Le vecchie automobili sono il simbolo del romanticismo americano, mentre i fondali dipinti degli anni ’50 sono stati usati per i film western e offrono un altro livello di lettura. Rappresentando un paesaggio di un’altra epoca, creano un mondo interno che è come lo specchio di uno specchio.

Lei ha esordito come regista nel 2008, realizzando anche «Nowhere Boy», il film sull’adolescenza di John Lennon e «Fifty Shades of Grey». Attualmente sta lavorando al film «Back to Black» sulla vita di Amy Winehouse che uscirà nel 2024. Nel riflesso di queste figure anticonvenzionali c’è traccia della sua giovinezza e della voglia di rompere gli schemi che ha caratterizzato, del resto, le scelte del gruppo dei Young British Art?
È la prima volta che mi trovo a rispondere a questa domanda. Nei miei film, i soggetti sono sempre outsider. Io stessa già da teenager e poi negli anni della scuola d’arte mi sono sempre sentita un’outsider. Ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una situazione disagiata. Mia madre e il mio patrigno erano disoccupati, a casa non c’erano soldi e loro dovevano pagare due mutui. Ricordo che mangiavo a scuola. Se incontravi una ragazza con un maglione di seconda mano un po’ puzzolente, quella ero io! (ride). Come teenager ero un disastro, non sono mai stata una «cool kid» (ragazza figa). Ho solo cercato la mia strada. Alla scuola d’arte non ero riuscita a entrare perché ero stata bocciata a tutti gli esami, fui ammessa a frequentare i corsi per realizzare vestiti. Però ho capito che volevo muovermi nell’arte. Alle cose che desideravo fare ci sono arrivata per altre vie. Lo stesso è stato per i film: sono entrata in questo mondo passando per l’arte. A volte, la mèta da raggiungere è più lontana, ma allo stesso tempo dà più energia per combattere. È interessante il collegamento con la mia infanzia per capire quella di John Lennon, la relazione tra lui e sua madre che viveva dietro l’angolo – ma questo lui l’ha saputo solo più avanti. La stessa cosa è successa a me. Quanto a James Frey, ho un amico che ha fatto parte del suo mondo, mentre il collegamento con Amy Winehouse passa attraverso la narrativa della sua musica. Ho sempre pensato che lei avesse un piede da una parte e l’altro in un mondo parallelo. La sua musica è stata profondamente legata a questa dicotomia, così come la sua autodistruzione.

A proposito di tarocchi, sua madre era insegnante di yoga e leggeva le carte…
Mia madre leggeva i tarocchi e quando ero bambina voleva spiegarmeli, ma io non ne volevo sapere nulla. Già allora quello che mi interessava era il potere della simbologia. Non mi interessava conoscere quale sarebbe stata la mia storia, cercavo soltanto un mio spazio per scoprirla da sola.