Sul rapporto tra mondo rurale e gestione degli incendi val la pena citare un passo di Mario La Cava, scrittore calabrese con il cuore e la mente nel mondo contadino: «I campi coltivati, però, i campi delle colline e delle pianure, si salvavano sempre. Li salvavano i contadini con i loro lavori continui, con le loro arature che distruggevano le erbe secche e gli arbusti che avrebbero potuto dare alimento al fuoco, appena si fosse presentato: lo fermavano subito con la loro vigilante attenzione». Questa straordinaria analisi dello scrittore/contadino Mario La Cava è non solo attualissima, ma coglie i punti nodali della questione incendi. La prima questione riguarda il fatto che le nostre campagne e foreste si sono spopolate progressivamente dagli anni ’50 del secolo scorso. Una presenza che assicurava quei lavori di manutenzione che impedivano a un eventuale incendio di propagarsi. La seconda questione, legata alla precedente, lo scrittore calabrese la riassume in una battuta fulminante: «Lo fermavano subito con la loro vigilante attenzione». Nessuno si illudeva, neanche a quel tempo, che gli incendi si potessero evitare, ma essi si potevano bloccare «subito», sul nascere, grazie a una «vigilante attenzione».

È da quest’ultima considerazione che chi scrive è partito, in qualità di presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, per contrastare questo insopportabile fenomeno non naturale, ma legato a dinamiche sociali e economiche che ben conosciamo.

Partiamo da una constatazione: negli ultimi due anni spaventosi incendi hanno colpito vaste aree boschive in Siberia, Brasile, California, Australia, e anche in Congo, Repubblica Centrafricana, Sudafrica e altri paesi africani di cui non si parla mai, malgrado siano andati in fumo milioni di ettari. I presidenti del Brasile e dell’Australia hanno sfacciatamente dichiarato che l’entità di questi incendi non c’entra con il cambiamento climatico, negando l’evidenza dei fatti: un lungo periodo di siccità, temperature elevatissime che si protraggono nel tempo, venti forti e sempre più frequenti, favoriscono il propagandarsi delle fiamme. Sono gli eventi estremi che in ogni parte del mondo producono disastri ambientali. Siccità, ondate di calore estremo e venti forti ci sono sempre stati, ma negli ultimi trent’anni sono diventati sempre più intensi e frequenti a causa dello squilibrio dell’ecosistema provocato da un’attività umana non più sostenibile.

Purtroppo, anche quei governi che riconoscono nel mutamento climatico un fattore di accelerazione non fanno molto di più degli altri nel contrastare seriamente questo fenomeno che sta contribuendo prepotentemente ad aumentare la CO2 nell’atmosfera, sia direttamente immettendo milioni di tonnellate di CO2, sia indirettamente attraverso l’incenerimento di immense foreste che non potranno più assolvere alla loro funzione di prelievo dell’anidride carbonica.
Continuando in questo modo anche gli sforzi che si stanno facendo per ridurre l’immissione di CO2 nell’atmosfera verranno vanificati. Di fronte a questo disastro annunciato, l’allarme lanciato da Greta Thunberg e la sua denuncia «non state facendo niente!» risultano inconfutabili. Se è vero, infatti, che per trasformare l’economia, abbandonare l’energia da combustibili fossili e ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi ci vorrà del tempo, di fronte al dilagare degli incendi perché non si faccia nulla in termini di prevenzione è un mistero. O quasi.

Vale la pena ricordare che c’è una lunga storia del rapporto tra l’uomo e il fuoco, elemento rilevante per le attività umane, che non a caso i primi filosofi greci ponevano come uno dei quattro elementi fondamentali per la vita. Così come è bene ricordare che nel corso dei secoli le popolazioni che abitano le foreste avevano imparato a governare il fuoco, a innescare incendi controllati come azione preventiva (linee tagliafuoco), e anche per creare spazio per le attività agricole.
Nelle aree del mondo colpite dagli incendi di grandi dimensioni sono stati cacciati via i popoli indigeni, in più di un caso attraverso un vero e proprio genocidio. Immensi territori si trovano così privi di presenze umane in grado di intervenire prontamente quando scoppia un incendio. Ed è questo il punto: per spegnere il fuoco quando nasce basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ne serve un secchio, dopo dieci minuti ci vuole una pompa e una tonnellata d’acqua, dopo venti minuti devono intervenire i pompieri e, se non sono sufficienti, gli elicotteri.

Le cause degli incendi sono variegate: raramente esiste l’autocombustione, molto frequenti sono gli incendi dolosi, provocati da soggetti sociali diversi (pastori, speculatori, piromani, vendette). È difficile prevenire, ma si può intervenire quando parte l’incendio. Se il territorio è vissuto, se c’è una cura e una manutenzione delle foreste, se c’è una presenza umana attiva e responsabile, allora gli incendi si possono spegnere sul nascere. E questo vale in ogni parte del mondo, e dalle nostre parti a maggior ragione viste le dimensioni ridotte delle superfici interessate. La marginalizzazione economica e sociale delle zone agricole, collinari e montanare ha provocato un veloce spopolamento e abbandono di queste aree. Risultato: quando parte un incendio non ci sono né abitanti che lo contrastano, né le cosiddette guardie cantoniere di un tempo, né bastano le guardie forestali, che al massimo possono dare l’allarme. Solo il presidio di questi territori e una responsabilizzazione degli abitanti possono salvare il patrimonio forestale.