Euripides Laskaridis era già stato in Italia, al festival Inteatro pochi anni fa, ed aveva suscitato curiosità e interesse nel mettere in scena sé stesso, con spropositata goffaggine e arguzia, in uno «stato d’animo» disperato eppure vitalissimo in cui in molti pensammo di trovare un riferimento alla posizione di «strangolamento» da parte dell’Europa in cui il suo paese, la Grecia, era costretto.
Ora però, assistendo alla sua ultima e più complessa creazione, Elenit (la scorsa settimana alla Pergola, stasera e domani alle Muse di Ancona) viene un po’ da ricredersi. Questa grossa coproduzione internazionale tra i maggiori teatri europei (capitanata comunque dal potente Onassis Stegi ateniese) sembra infatti voler volontariamente amplificare quasi senza controllo quella confusa «creatività» di allora, ad opera di questa attuale banda scatenata che si impadronisce della scena e delle sue proiezioni (dieci interpreti e uno sterminato staff tecnico). Perfino il titolo non fa riferimento, come potrebbe sembrare per assonanza, alla madre «peccaminosa» dell’Ellade classica, ma più prosaicamente all’Eternit, il materiale oggi messo al bando per la pericolosità delle sue scorie… Lasciando comunque misterioso il suo nesso con le immagini, che alludono semmai a tutt’altro tipo di contaminazione.

LO SPETTACOLO procede per step successivi, in cui ognuno dei fantasisti sulla scena compone e rifinisce il proprio delirante (se così si può dire) abbigliamento, fatto di strazze e trucchi elaborati, di piccoli oggetti d’affezione domestica e di chincaglieria di trovarobato. Ma quando quelle complicate mascherature sono state elaborate, ancor più misterioso diviene il significato del loro incontrarsi sulla scena: come vitalità è un po’ insana, e come estetica appare piuttosto confusa. Il chiamarsi a raccolta di tutte quelle creature sciammannate finisce purtroppo per risultare assai fine a se stesso, con scarsa possibilità di vera e dialettica rappresentazione.
Laskaridis rivendica il valore spettacolare di quel formarsi in diretta del gruppo sulla scena, una aggregazione frenetica i cui membri si esibiscono reciprocamente come in un misterioso gioco di società. Non sappiamo se l’artista si sia voluto ispirare a precedenti illustri (dalla strepitosa, geniale e dolorosa, Classe morta di Tadeusz Kantor, fino agli scombinati quanto simpatici clown del Grand Magic Circus di Jerome Savary, tanto per fare due esempi di opposto senso e valore). Lui si vanta di aver molto frequentato il connazionale Dimitris Papaioannu, ma il loro percorso pare davvero inconciliabile, per i risultati scenici (e per lo spirito e lo spessore) che i due mostrano di aver raggiunto.