Ve la immaginate una cucina senza più acciughe? Potrebbe succedere e sul banco degli imputati ci siamo soprattutto noi.

I riflessi argentei delle acciughe ispirarono la leggenda che un tempo fossero una famiglia di stelle luminosissime che Dio decise di gettare in mare perché troppo vanitose. Adesso questi piccoli pesci azzurri, lussureggiante patrimonio dei nostri mari e fra i protagonisti assoluti della nostra cultura gastronomica, stanno correndo un rischio molto serio. Ormai da anni i dati scientifici mostrano un progressivo e preoccupante calo delle popolazioni a causa della pesca eccessiva. La situazione è talmente grave che a livello di Unione Europea si sta prendendo in considerazione l’ipotesi di istituire delle quote limite di pesca. Il 25 gennaio la Commissione pesca del Parlamento europeo ha tenuto un’audizione per discutere il piano pluriennale per i piccoli stock pelagici del Mar Adriatico, un passaggio soprattutto tecnico al quale hanno partecipato diversi esperti che hanno presentato studi e dati, alcuni dei quali allarmanti.
La proposta di riduzione delle quote di pesca per ogni paese è stata avanzata da alcuni parlamentari e fa molto discutere altri, preoccupati per l’impatto sulle imprese, ma dati alla mano non c’è spazio ne tempo per altre soluzioni se si vuole veramente evitare la catastrofe. Si tratta di una situazione limite a cui purtroppo il nostro paese ha dato un contributo fondamentale.

L’acciuga è la specie ittica più pescata in Italia, e per quanto riguarda il Mare Adriatico il nostro paese è il primo nelle catture, seguito dalla Croazia. Già nel 2012 un primo allarme venne lanciato da Greenpeace con un rapporto in cui si evidenziava il grave impoverimento delle popolazioni di acciughe e sardine nel nord Adriatico iniziato nei primi anni Novanta, declino poi ulteriormente confermato tra la metà degli anni Novanta e il 2000. Una situazione analoga venne denunciata nel 2013 per lo stretto di Sicilia, altra area di prioritaria importanza per la pesca di questa risorsa. Secondo gli esperti scientifici della FAO/CGPM, già nel 2012-2013 lo stock era in sofferenza e si raccomandava di non aumentare ulteriormente lo sforzo di pesca. Questi dati preoccupanti sono stati successivamente confermati non solo dalla FAO, ma anche dallo STECF, il Comitato Scientifico, Tecnico e Economico della Commissione Europea.

I segnali insomma ci sono da tempo ed ora le più recenti valutazioni scientifiche evidenziano un declino pressoché diffuso in tutti i mari italiani. Sempre secondo Greenpeace, la necessità a cui si è arrivati ora rappresenta una grande sconfitta della politica italiana. Un sistema di gestione basato su deroghe, scappatoie, mancanza di trasparenza e un uso non sostenibile di sussidi pubblici ha favorito la distruzione degli habitat marini e la decimazione delle nostre risorse ittiche. La pesca in Italia vive un momento drammatico: l’intero settore attraversa una crisi profonda causata da politiche inadeguate e da misure di gestione che per decenni si sono basate sul mero profitto economico, che ha via via incentivato il proliferare della pesca eccessiva. Un altro segnale preoccupante oltre alla diminuzione della redditività della pesca, del 30% in un solo anno, è la riduzione della taglia minima del pesce pescato: si pescano pesci sempre più piccoli, ovvero più giovani, che spesso non hanno raggiunto la maturità sessuale e ciò va a incidere pesantemente sul tasso di riproduzione. Peschiamo troppo, oltre tre volte il limite sostenibile, e peschiamo male. I fondi europei stanziati per il settore pesca, che per l’Italia hanno corrisposto a circa 19 milioni di euro tra 1994 e il 2006, anzichè essere investiti in maniera adeguata nella ricerca scientifica e nella selettività degli attrezzi per garantire una redditività di lungo periodo, sono stati utilizzati per la costruzione di nuovi pescherecci sempre più potenti che hanno svuotato il mare e messo in ginocchio la piccola pesca costiera, che opera con un minor impatto sull’ambiente.

In Italia si pescano i piccoli pelagici sostanzialmente con due sistemi: uno è quello della lampara, la piccola barca a remi di supporto al peschereccio dotata delle luci artificiali che servono ad attirare i piccoli pesci, che vengono raccolti dalla rete dopo ore di attesa, un metodo tradizionale e selettivo; l’altro è quello della volante a coppia, che consiste in due pescherecci che trainano la rete, sistema quest’ultimo che produce delle altissime percentuali di pesce indesiderato, perchè di altra specie o di taglia troppo piccola. Proprio rispetto a questo secondo invasivo e poco selettivo sistema l’Italia ha delle grosse responsabilità: anziché incentivare la pesca tradizionale, negli anni sono state concesse decine di licenze di pesca con il sistema della volante a coppi camuffandolo come ricerca scientifica : le cosiddette licenze speciali, ovvero autorizzazioni di pesca temporanee che, teoricamente, dovrebbero essere concesse solo per un tempo limitato e sotto stretta osservazione. Nessuno studio o pubblicazione che ne giustificasse la loro concessione risulta essere mai stato pubblicato ma, di fatto, per quasi vent’anni queste licenze sono state concesse, prima in Veneto e poi anche in Sicilia. Ancora nel 2016 il ministro Martina concedeva questo tipo di licenze anche a pescherecci che avevano compiuto attività illegali, in continuità con una tradizione di scarsa trasparenza e non rispetto delle regole che ha sempre caratterizzato questo settore.

La discussione a livello europeo è ancora in corso e non è chiaro quando si arriverà a una decisione, forse poco prima dell’estate. Le quote limite non piacciono a chi pensa ad imprese e posti di lavoro. Secondo l’europarlamentare italiano Marco Affronte, del gruppo verde/Alleanza libera europea, che nel 2004 è stato nominato direttore scientifico del progetto internazionale triennale Adria-Watch, intervenire con un sistema di gestione è necessario, ma senza disintegrare il settore. Per questo, dice, qualsiasi proposta va discussa, capita e eventualmente condivisa, anche con il settore stesso.

In base ai dati aggiornati, i pareri scientifici avvertono che sarebbe necessario un -10%, di riduzione delle catture nel prossimo triennio per le acciughe e un -20/25% per le sardine, almeno per minimizzare i rischi di collasso degli stock. Un freno alla pesca così come è stata condotta fino ad adesso è quindi imprescindibile, applicarlo è una questione di volontà politica che fino ad adesso è mancata.