Pochi giorni fa Tonino  De Bernardi ha ricevuto la medaglia del Presidente della repubblica che ogni anno viene assegnata dal Premio Solinas. A parte la gioia per un riconoscimento a un cineasta che amo (ero nella giuria e come tutti gli altri ho accolto subito la proposta) mi sembra importante che il Premio continui quel lavoro di «scoperta» dei nostri grandi registi che il sistema-cinema-italiano ha oscurato. È stato così per i molti documentaristi a cui in questi anni è stata data la medaglia – da Cecilia Mangini a Giuseppe Morandi – autori divenuti negli ultimi anni un riferimento prezioso per le nuove generazioni dei registi, almeno quelli che praticano il cinema del reale cercando «modelli« diversi da quanto prevale nelle storiografie, nelle scuole, nelle tendenze, commedia «all’italiana» in testa.

 

 

Se si prova invece a tracciare una cartografia allargata del cinema italiano si scoprono pulsioni e visioni che ne ridefiniscono generi, politicità, relazioni col resto del mondo. E per questo è significativo che quei cineasti (accade più nel documentario) siano andati a guardare i film di Mangini, appunto, o quelli di De Seta, e più in genere di quel cinema messo da parte, che invece aveva cominciato a raccontare un’Italia (forse era stato anche questo a disturbare) poco in sintonia con l’immagine dominante di boom e quant’altro, svelandone conflitti, stridori, zone dimenticate per cercare nel confronto con la realtà l’invenzione di un’ immagine capace di esprimerla, di renderne la tensione.

 

 

Tonino De Bernardi cresce nell’underground, che è ancora un’altra storia, un fare-cinema cioè che da noi più di altro è stato negato – con effetti abbastanza deleteri sulla cultura visiva nel nostro Paese. A Chivasso, dove è nato, e poi a Torino, dove vive, in provincia come dice lui, e come spesso ha scritto anche su queste pagine – la sua casa di produzione si chiama Lontane province – comincia a fare film insieme agli amici, agli amori, a tutti coloro che incontra, e nelle sue immagini cinema e vita si intrecciano da subito, e questa relazione diventa nel tempo sempre più intima al punto che diviene impossibile discernere la linea di separazione (ammesso che ve ne sia una). «Lavoravo con una piccola Super8 che potevo tenere sempre con me, per filmare sempre, anche quando mangiavo e riprendevo le persone di fronte a me… Era una cosa diversa da come si fa il cinema, con queste macchine enormi, tante luci» dice Tonino di sé (nella videointervista A proposito di sbavature di Mimmo Calopresti). Se vogliano trovare dei riferimenti possiamo guardare al lavoro di Mekas, o ai Diari di Ed Pincus, a alcuni film di Jim McBride solo per citarne alcuni, quell’underground americano che come le nouvelle vague è sintonizzato con le inquietudini dei tempi, gli anni Sessanta in corsa verso l’esplosione del Sessantotto, in cui cinema/vita rivendicano lo stesso gesto di ricerca e la stessa fragile emozione.

 

 

Ecco, i film di Tonino sono così, ne sono protagonisti di volta in volta Isabelle Huppert e le sue figlie, Giulietta e Veronica, i nipoti e i molti amici, Lou Castel e Iaia Forte, un flusso inarrestabile come l’energia che ci vuole per fare cinema fuori – lo dico senza retorica – dalle istituzioni, da finanziamenti,distribuzione, nonostante gli inviti ai festival e i riconoscimenti internazionali. E però lui non si arrende e la sua filmografia è lunghissima e in continuo aggiornamento. Sulla soglia della vita e del cinema, tra uomini e donne perduti, come dice il nuovo film di Tonino de Bernardi, Jour et nuit, girato come un 3D in 2D mischiato allo split screen che in un unico piano ci porta nella contemporaneità del mondo, nel suo svolgersi in uno stesso momento, quando il presente si fa già passato – servirà a farlo circolare un poco?. Complice il montaggio di Maicol Casali, seguiamo questi uomini e queste donne nel loro camminare, in automobile, in metropolitana, a piedi senza sosta, il movimento del cinema che diviene narrazione, srotolarsi di storie e di Storia, di voci in cui le parole dei libri si sovrappongono alle vicende del presente. Paesaggi appena accennati, che sfuggono, Parigi, Torino; la Grecia è una chiesa ortodossa e le note del rebetiko cantate da una ragazza alla chitarra.

 

 

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Jour et nuit: scritto contro il vetro al buio mentre fuori dal finestrino, sul ciglio della strada, sfilano sagome di prostitute. Denaro, sfruttamento, due uomini discutono sui prezzi dei corpi da vendere ogni giorno, sui rischi e i ricavi. Marx e Teresa Raquin, e intanto una donna al mare ci dice dei tagli alle pensioni e che gli anziani non riescono più a pagare le proprie case e sono costretti a riparare dai figli o a tornare in campagna per sopravvivere.
Dove siamo? L’azzurro del mare è quello di una spiaggia greca, con una donna francese in vacanza, o di una spiaggia qualsiasi nell’Europa «in debito» di economie che massacrano i cittadini mettendo in crisi le democrazie?
La giovane donna tiene in mano un coltello: primo capitolo, Come battersi, ne seguiranno altri, La voce dei libri, o Battersi. Lou Castel su una panchina legge la poesia del coltello, le parole danzano nell’aria. Il volto di Joana Preiss, splendida presenza (attrice e anche regista) attraversa i luoghi, i passi si inseguono sul filo di un mistero.

 

 

La bimba chiede al regista: «Cosa filmi?». Irruzione di vita nell’inquadratura, ma come dice Tonino De Bernardi il cinema è una porta, e lui quella soglia misteriosa e palpitante la varca, e continua a varcarla, con leggerezza, e con una libertà a cui non ha mai rinunciato, che ritroviamo di nuovo nella dolcezza di questo film, malinconico e insieme capace di giocare/rischiare in un’immagine personalissima e politica, intima e collettiva in cui la realtà si svela nelle sue infinite variazioni.
È un cinema quello di De Bernardi, che per questo sfugge non solo alle definizioni di «genere» ma soprattutto alla patina delle mode, inattuale con orgoglio e dunque commuovente e appassionato. Come una bella avventura da cui lasciarsi trasportare, almeno per scoprire se i nostri occhi e il nostro cuore sanno ancora stupirsi.