Una volta, qualche anno fa, in occasione di un ricongiungimento occasionale che aveva acceso gli entusiasmi degli ammiratori, Malcom Middleton dichiarò che non ci sarebbero più stati dischi degli Arab Strap. E da lì allora tutta una generazione che s’era rispecchiata in quella musica grondante di penombra, di ruggine, di letti sfatti, macchiati come le coscienze dei personaggi sghembi, monchi che si muovevano in quelle canzoni, prese a elaborare il lutto, forse anche a dimenticare quell’esperienza sanguigna nata alla metà degli anni Novanta nell’uggia della periferia scozzese, in simbiosi con la musica dei Mogwai e dei Belle and Sebastian. Esperienze contigue, intrecciate, una aggrappata all’altra, tant’è che pensando al duo originario di Falkirk, a quelle atmosfere lesionate, percorse da una trama di conati, i Belle and Sebastian nel 1998 intitolarono il loro terzo disco The Boy with the Arab Strap, mentre adesso i Mogwai producono per la loro etichetta Rock Action, l’inatteso magnifico ritorno di Moffat e Middleton, A Days Get Dark, che si sgrana a passo sostenuto attraverso scenari annuvolati, sentimenti frastagliati, spiragli di luce momentanea, minuta.

È IL PASSO SOSTENUTO dello spoken-word di Moffat, già l’attacco del primo brano, The Turning Of Our Bones, esemplare della formula adottata in tutto il disco, tra incedere inesorabile del parlato e tessitura degli arrangiamenti allestiti da Middleton, inclini all’indietronica, al folk, al cantautorato, alla new-wave, per cui emergono le fisarmoniche, gli archi oltre ai synth, al battito secco delle percussioni elettroniche. Ma questa cadenza, il passo così disinvolto dettato dalla voce di Moffat, inciampa, per propria costituzione, già in Another Clockwork Day, per una fragilità, per una depressione improvvisa del metabolismo; si piega su se stesso, stagna nel paludamento di arpeggio e straparlare ossessivi, quasi stordenti come il rimpianto che nasce dal repertorio di jpeg dissepolti da sottocartelle. Da lì affiorano gli ammicchi erotici, un ginocchio proteso, o «la piccola talpa dentro le tue cosce», proprio in apertura del disco: promessa di una sessualità che del resto è uno degli inneschi più evidenti della musica degli Arab Strab. Evidenti nel senso degli attriti, del richiamo arcaico della carne che si fa espletamento meccanico di desideri irruenti e miseri, raccontati soprattutto nei primi dischi e che ora, pur nella loro carnalità oscena, anzi scenica, apre possibilità di grazia estemporanea, di tregua.

UN RAPIMENTO improvviso, visione di un amore perduto o trattenuto con la forza della disperazione, diluito – diluiti i segni corporali, carnali – nella nostalgia, nella misura della mancanza, della sottrazione (di corpi e cose) che è il metro attraverso cui si svolge all’improvviso il cantato di Moffat; o la riflessione asciutta, gnomica, sulla sostanza, sull’essenza delle cose; o ancora lo sfondo crepuscolare di un muro su cui sono appese cornici prese all’Ikea. Sono scene di imagismo, di un’insignificanza quotidiana che luccica, una realtà ottusa, refrattaria nel proprio vuoto incanto; o di esistenzialismo quando grondano malinconia e furore, fragilità e rabbia: come una volontà di sparire tra l’attrito delle contraddizioni.