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Senato, perché adesso si può cambiare

Nel discorso del Ventaglio il Presidente Grasso interviene auspicando un accordo per una modifica della composizione del senato nella proposta di riforma costituzionale in discussione. La possibilità di modificare il […]

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 29 luglio 2015

Nel discorso del Ventaglio il Presidente Grasso interviene auspicando un accordo per una modifica della composizione del senato nella proposta di riforma costituzionale in discussione. La possibilità di modificare il testo è al centro del dibattito politico. Perché, e come cambiare?
Il problema viene dal clima politico mutato. Renzi ha perso un pezzo del Pd, e pagherebbe un prezzo politico molto alto sostituendolo con ex-berlusconiani, comunque camuffati. I numeri precari in Senato spiegano le sue più recenti mosse. Lo scambio tasse – riforme, il patto con gli italiani, il richiamo al voto popolare. Il referendum confermativo sulla riforma costituzionale è ormai certo, perché in senato il voto dei due terzi dei componenti che potrebbe evitarlo è obiettivo irrealizzabile. Il premier gioca d’anticipo, lanciando fin d’ora una campagna plebiscitaria, in puro stile berlusconiano.

Qui viene il problema tecnico. La proposta di riforma è stata approvata dal senato l’8 agosto 2014 e dalla camera il 10 marzo 2015, con modifiche. Per l’articolo 104 del regolamento del senato «nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla camera dei deputati». Il punto è che l’articolo 2, sul senato non elettivo imbottito di un ceto politico di seconda scelta, ha visto cambiare nel dibattito alla camera una sola parola. Basta per tornare, con un emendamento, al senato eletto direttamente dai cittadini?
Anche se il testo è ancora emendabile in altri punti, la sola modifica che oggi conta è questa. Perché lo stesso Renzi ci si è inchiodato sopra, pur essendoci ottimi motivi, più volte esposti su queste pagine, per non farlo. Ma soprattutto perché una battaglia plebiscitaria si combatte con i bazooka e le scimitarre, e non con forbiti argomenti da seminario. Non si discuterà del riparto di competenze tra stato e regioni, della corsia preferenziale per il governo in parlamento, o simili piacevolezze. Si combatterà all’ultimo sangue sullo scippo ai diritti democratici dei cittadini, sulla riduzione degli spazi di democrazia, sull’autoritarismo strisciante. Soprattutto se, com’è molto probabile, saranno in campo anche altri referendum, come sulla legge elettorale. E in un contesto avvelenato dal preside sceriffo, dai bavagli per le voci scomode, dai tagli alla sanità camuffati da razionalizzazioni di spesa, dalla insostenibile leggerezza dimostrata nei contesti europei e internazionali. Certo, sarà un plebiscito su Renzi. Ma bisognerà vedere se il premier terrà a galla il nuovo senato, o il nuovo senato tirerà a fondo Renzi.

Quindi, cambiare. Certo, una lettura rigorosa di regolamenti e precedenti dice che non basta una parola emendata per rivoltare uno dei punti fondamentali della proposta. Anche Grasso lascerebbe intendere modifiche limitate. Ma norme e precedenti vanno letti con intelligenza. Soprattutto per la riforma della Costituzione. L’articolo 138 era stato voluto dai costituenti per dare attraverso un ampio consenso stabilità e durevolezza alle architetture fondamentali della Repubblica. Ha funzionato per decenni su due implicite premesse: il sistema elettorale proporzionale, e la convenzione per cui non si modificava la Costituzione senza l’accordo dei soggetti politici in origine stipulanti (il cosiddetto «arco costituzionale»). Per questo nel 1983 la Commissione Bozzi non partì fino a quando non ci fu per le mozioni istitutive la firma dell’allora Pci con Giorgio Napolitano. E si capisce perché i regolamenti parlamentari riducessero la seconda deliberazione ex articolo 138 a un prendere o lasciare, precludendo la modifica del testo approvato in prima deliberazione. La costituzionalità è dubbia. Ma in realtà non c’era bisogno di altro.
Tra il 1992 e il 1994 sono venuti meno sia il sistema proporzionale, sia l’arco costituzionale. Ma è rimasta l’esigenza di durevolezza e stabilità. Non si fa una Costituzione nuova per un orizzonte precario e a breve termine. E come si pensa di poter dare oggi al paese una architettura stabile e duratura forzando le scelte di una maggioranza raccogliticcia, gonfiata da un premio incostituzionale, sostenuta da salti della quaglia e cambi di casacca determinanti? Una Costituzione palesemente espressione di un consenso minoritario?
Nelle audizioni in corso in Senato è stato ricordato – in particolare da Besostri, oltre che da me – un precedente del 1993 che legge la navetta in maniera elastica e ampia, giungendo a una modifica dell’articolo 68 della Costituzione che diversamente non avrebbe visto la luce. Se si dovesse ritenere preclusa questa via, è a mio avviso possibile ricorrere a uno stralcio mirato. Per l’articolo 101 del regolamento, uno o più articoli possono essere stralciati «quando siano suscettibili di essere distinti dagli altri per la loro autonoma rilevanza normativa». Tale è certamente il caso per il senato non elettivo e norme connesse. Sarebbe così possibile lasciare in piedi il superamento del bicameralismo paritario, e il resto della riforma che – con qualche correzione – potrebbe persino risultare dignitosa.
Le parole di Grasso possono intendersi come una possibile apertura. Ma per come si è mosso finora il premier c’è poco da sperare che cerchi un compromesso onorevole. Citando un autorevole osservatore della politica italiana, talvolta vorremmo che il premier fosse un po’ meno furbo, e un po’ più intelligente. Crescerà?

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