A breve distanza dal Requiem di Giuseppe Verdi eseguito nel Duomo di Milano, nella Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e nel Duomo Vecchio di Brescia, il Teatro alla Scala di Milano, che con quei concerti era tornato ad aprirsi al mondo dopo la pausa estiva e l’interminabile pausa Covid, riapre letteralmente i battenti sull’opera lirica – il suo storico, attesissimo, irresistibile biglietto da visita – con l’esecuzione in forma di concerto de La traviata, affidandosi ancora una volta al nume verdiano, tutelare dello spirito della nazione e cantore emerito di ogni suo risorgimento. Curioso il cortocircuito, certamente involontario, tra il palco e la platea: sulla scena si suona, si canta e parzialmente si recita la storia di una prostituta parigina di metà Ottocento, la più bella e la più nota, che muore di una malattia, la tisi, sulla cui contagiosità il libretto di Francesco Maria Piave e la pièce di Alexandre Dumas figlio cui il libretto si ispira stendono il pietosissimo velo dell’eufemismo; nella sala del Piermarini, per due terzi svuotata dall’attuale normativa per far fronte alla pandemia in corso (peraltro ferrea nei teatri e morbidissima altrove: si pensi solo ai mezzi di trasporto), tutto parla di contagio e del disperato tentativo comune di contenerlo.

LA PRIMA dell’opera, il 15 settembre, è stata un trionfo, appena smorzato dalla mancanza di mani utili a rimpolpare l’applauso che, quando è pieno, alla Scala lascia il segno. Dunque un plauso unanime, ma più delicato del solito, come delicata è stata la direzione dell’orchestra dello straordinario ottantaquattrenne Zubin Mehta, che ha tentato in tutti i modi di contenere e sfumare i volumi inevitabilmente mutati dalla collocazione dell’orchestra sul palco. Tutto era perfettamente a fuoco: la musica nitida, forse ancor più nitida che quando l’orchestra è nel golfo mistico, con qualche inevitabile sfasatura d’arrivo dei suoni emessi dagli strumenti disposti più in alto ed entro uno spazio più ampio; ottimale la proporzione tra il suono dell’orchestra e quello delle voci, cui il direttore, pur avendo i cantanti alle spalle, presta un’attenzione certosina. Certo il tenore brasiliano Atalla Ayan, forse sopraffatto dalla tensione, ogni tanto ha perso il tempo e ha tentato in tutti i modi di disimpegnarsi decorosamente nel ruolo di Alfredo, senza però riuscire a far girare e vibrare la voce come avrebbe dovuto.

CERTO il baritono Leo Nucci, decano del ruolo di Germont, mostra la corda di una voce che, seppure miracolosamente intatta negli acuti, risulta stimbrata e legnosa nel fraseggio. Ma su tutti, a suo agio nei tempi dilatati e morbidissimi di Mehta, ha svettato Marina Rebeka, che presta a Violetta non solo una voce di rara estensione, omogeneità timbrica e sicurezza di emissione, ma anche un’interpretazione meditata e incarnata a ogni battuta (brillante la replica al brindisi di Alfredo; drammaticissima la ripresa di «Sempre libera degg’io»; straziante tutto il terzo atto). Repliche fino al 28 settembre.