Per raccontare la storia della masseria Carmine della famiglia Fornaro, bisogna riportare indietro le lancette della storia al 1859. Anno in cui il marchese napoletano Filippo di Beaumont Bonelli acquistò il terreno di 60 ettari, dove sorge la masseria dalla quale si può ammirare Taranto e il suo mar Piccolo. A far incrociare le strade del marchese e della famiglia Fornaro è il caso, legato agli eventi della storia: il nobile napoletano ha bisogno di un fattore per le sue masserie sparse sul territorio, e per farlo sceglie, ai primi del novecento, Vincenzo Fornaro. Gli anni passano, la storia porta con sé due guerre mondiali, il marchese invecchia e decide di vendere tutte le sue proprietà, tra cui la masseria Carmine. Che viene acquistata negli anni cinquanta dal Fornaro, che si è legato a quel terreno e a quella masseria perchè lì ha trovato rifugio durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale con la sua famiglia. Masseria che dopo qualche anno diventa il centro di tutte le attività della famiglia Fornaro, che vende allo Stato i terreni posseduti in zona Zitarella nel rione Tamburi: su quei terreni, dove sorgono migliaia di uliveti, beffa delle beffe, dovrà sorgere il IV centro siderurgico italiano, l’Italsider, il più grande d’Europa. E proprio sui terreni di proprietà della famiglia Fornaro, sorgeranno i famosi parchi minerali.

Passano i decenni, le attività della masseria Carmine passano di padre, in figlio, in nipote. Finché non arriva l’anno 2008, il punto di non ritorno. A guidare la masseria è un altro Vincenzo. A marzo la Asl inizia una serie di analisi su campioni di alimenti prodotti dalle masserie che insistono nel raggio di 20 km dalla zona industriale. L’allarme è scattato dopo che le analisi effettuate su un pezzo di formaggio, hanno riscontrato livelli di diossina tre volte superiori alla norma. Le analisi sulle carni di quattro capre e quattro pecore della masseria Carmine non lasciano scampo: sono piene di diossina. Dopo il vincolo sanitario e il divieto di pascolo, a settembre arriva l’ordine di abbattimento per oltre 1200 esemplari del circondario, 600 dei quali della famiglia Fornaro: è l’alba del 10 dicembre del 2008, quando pecore e capre della masseria vengono portare al macello. Come risarcimento danni, arriveranno appena 39mila euro per il fieno e le spese di abbattimento e smaltimento di un gregge che ne valeva almeno 300mila.

Da quel giorno il silenzio s’impossessa di quei terreni dove prima il suono dei campanacci la faceva da padrone. Ulteriore beffa, sempre nel marzo del 2008 (strana coincidenza), la decisione della famiglia Riva di togliere ai Fornaro la gestione di due grandi uliveti, con oltre 2500 alberi, che rientravano nel perimetro dell’Ilva in contrada Feliciolla e in agro di Massafra. Che i Fornaro hanno gestito sin da quando diventarono di proprietà dell’Italsider, l’Ilva di Stato.

La conferma che quella diossina depositatasi sui terreni e sugli uliveti, gli unici a salvarsi, derivava dalle attività dell’Ilva arriva quattro anni dopo, nel gennaio del 2012. Con i risultati della perizia chimica redatta per incarico del gip Todisco, nell’ambito dell’incidente probatorio chiesto dalla Procura, nell’inchiesta sull’inquinamento dell’Ilva che poi sfocerà nel sequestro degli impianti nel luglio 2012 e nel processo Ambiente Svenduto, di cui il caso Fornaro è uno dei pilastri.

Ma questa è solo la prima parte di questa storia. Perché ce n’è una seconda che parla di futuro. Di rinascita. Di riconversione. Di riscatto. Nel 2013 Vincenzo Fornaro, il nipote di quel nonno da cui tutto iniziò, conosce i ragazzi di ‘CanaPuglia’, che gli illustrano la possibilità di utilizzare i semi di piante di canapa in cui è inibito il principio attivo, il Thc presente nel limite massimo dello 0,2% e perciò non allucinogeno, per bonificare i terreni risultati inquinati da diossina. A Fornaro l’idea piace: a marzo 2014 avviene la prima, attesissima semina. La seconda viene svolta nel marzo 2016. Adesso si attende l’esito degli esami, che si spera siano positivi, per poi effettuare una terza definitiva semina. Ma l’idea piace ed entusiasma, tanto da finire all’interno di un progetto «Terre Elette, l’abbondanza della bellezza», vincitore del bando “Ambiente è Sviluppo per Taranto” della Fondazione per il Sud. Il progetto, realizzato con la parrocchia di Paolo VI, il Corpus Domini: il raccolto, varietà Eletta Campana autoctona del Sud, sarà usato per ristrutturare una barca che porterà i turisti in giro per il Mar Piccolo ed anche il punto di ristoro per l’approdo sarà realizzato con la canapa. In più, con i 290mila euro del primo premio, è iniziata una lunga divulgazione nelle scuole sulla canapa e i suoi tanti utilizzi, oltre che una festa per il raccolto e tante altre iniziative future.

È chiaro però che la coltivazione della canapa è per i Fornaro anche e soprattutto sinonimo di diversificazione economica di un’attività secolare. L’idea è quella di entrare nel settore della fibra e del food. Grazie anche alla vicinanza dell’azienda Sout Hemp Tecno nel vicino paese di Crispiano, primo impianto per la trasformazione primaria delle paglie di Canapa del meridione, operativo da fine 2014. A Monteiasi è sorta un’azienda che produce mattoni e intonaci. Con la canapa si può fare di tutto: dal settore agricolo a quello edile a quello meccanico. L’idea dei Fornaro è diversificare e creare anche una nuova forza lavoro. Ecologica e sostenibile, lontano anni luce dalla grande industria inquinante, che da qui s’innalza altissima all’orizzonte.

Oggi la masseria Carmine è luogo di incontro, di eventi, concerti, mostre, passeggiate nella natura e alla scoperta di due chiese rupestri sconosciute ai più, risalenti al 1200. Si svolge ippoterapia tra gli uliveti secolari. Si guarda al futuro con occhi indifferenti. Ma non si dimentica. Al cancello d’ingresso della masseria, sono appesi tre campanacci: «Ci ricordano le nostre pecore e le nostre capre».