La discutibile moda dei selfie potrebbe essere la nuova gatta da pelare del presidente russo Putin. Ieri, in pompa magna, il britannico Daily Mail pubblicava decine di fotografie di soldati russi in posa con poster del presidente Assad, avvolti nella bandiera siriana o il volto coperto dalla kefiah. Nell’articolo il quotidiano mappava la presenza russa a voler dimostrare che di militari di Mosca in Siria ce ne sarebbero molti di più di quelli dichiarati, quelli che il ministro degli Esteri Lavrov identifica come consiglieri e non truppe da combattimento.

Alla guerra diplomatica tra Occidente e Russia nel minato campo di battaglia siriano si è aggiunta quella mediatica. Eppure Mosca non nega di avere uomini sul campo né di aver mandato costantemente a Damasco equipaggiamento militare. Se poi la presenza russa fosse volta alla partecipazione ai combattimenti (dopo Mosca, ha negato anche Damasco), non ci sarebbe da stupirsi: Putin non ha mai nascosto la volontà di mantenere Assad al suo posto, tutelarlo a fronte dei chiari obiettivi di Occidente e Golfo. Non tanto per una particolare amicizia con il presidente siriano o la convinzione che sia la migliore delle alternative. Ma, Mosca ne è convinta, è la migliore alternativa oggi con l’Isis che controlla un terzo della Siria e al-Nusra e vari gruppi sunniti armati un altro terzo.

Ed è la migliore alternativa per tutelare i propri interessi, strategici, energetici e politici nella regione. Mosca conta sull’asse sciita come gli Stati Uniti contano su quello Turchia-Golfo. Così insieme alla tempesta di sabbia che ieri avvolgeva Damasco, Beirut e Gerusalemme, soffiano i venti di un conflitto globale. Difficilmente sarà concreto, guerreggiato. Più probabile che sia in stile guerra fredda. Nel vortice finiscono tutti: lunedì un funzionario del governo greco ha raccontato alla stampa della richiesta giunta da Washington: la Casa Bianca ha chiesto di chiudere i cieli greci al transito degli aerei russi diretti in Siria, richiesta che Atene sta ancora valutando.

Chi i cieli li ha già chiusi è la Bulgaria, fedele ingranaggio della macchina Nato: ieri Sofia ha fatto sapere di aver rifiutato a un numero non meglio specificato di velivoli russi di attraversare il proprio spazio aereo perché diretti in Siria. «Gli aerei, ci era stato detto, trasportavano aiuti umanitari ma abbiamo ricevuto informazioni, che per alcune ragioni crediamo vere, che il contenuto era diverso», ha detto la portavoce del Ministero degli Esteri bulgaro, Betina Zhoteva, aggiungendo che il suo paese non ha ricevuto in merito pressioni dalla Nato.

Alla luce delle rivelazioni greche, dubbi potrebbero sorgere. Gli Stati uniti non nascondono il timore di un incremento della forza militare russa in Siria. Come la nascondono con difficoltà i partner europei, Londra e Parigi. Entrambi preferiscono celare dietro l’emergenza rifugiati l’obiettivo di un’entrata a gamba tesa nel conflitto siriano. Così i belligeranti Hollande e Cameron (che rende noto oggi un raid anti-Isis risalente ad agosto, in contrasto con il voto contrario del suo parlamento ad un intervento in Siria, due anni fa) prenderebbero la via di Damasco, per “risolvere” a monte il flusso di profughi verso l’Europa. Ieri mattina il primo volo di ricognizione francese ha sorvolato la Siria, aprendo al lancio a breve di bombardamenti contro l’Isis, mentre Londra specificava che quello di agosto potrebbe essere il primo di una serie di interventi chirurgici contro lo Stato Islamico.

Insomma, si rientra dentro il solco segnato dagli Usa in un anno di guerra al terrore: si bombarda l’Isis in determinate aree, non in tutte, non in quelle in cui a mantenere il controllo è Assad o si finirebbe per aiutarlo o riconoscergli legittimità sul poco di Siria che gli resta. C’è chi in Europa mantiene le distanze: il premier italiano Renzi, a Porta a Porta, si dice contrario a «iniziative spot» e riconosce la legittimità di Assad in quel terzo di Siria, come fosse ormai già ufficialmente divisa in nuove entità. Gli fa eco il vice cancellerie tedesco Gabriel che sfila la Germania da un eventuale intervento. Che la macchina neocoloniale sia già in movimento? Forse Roma punta alla Libia.