Quella di cui fa parte Simone Zafferani, in libreria con L’ora delle verità (peQuod, pp. 112, euro 15), è una generazione poetica – quella dei nati tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta – destinata per lungo tempo a una rimozione forzosa, a un disinteresse da parte di critica e lettori; una generazione schiacciata, da un lato, dal sistema dell’editoria poetica che andava, alle soglie del nuovo millennio, abdicando al proprio ruolo di scouting dei nuovi talenti, senza tuttavia essersi ancora organizzata in una rete di editori indipendenti in grado di accogliere la nuova proposta; dall’altro da una vera e propria responsabilità dei poeti – parlando qualche tempo fa con Biancamaria Frabotta, lei notava la stitichezza poetica della generazione post 68.
Simone Zafferani, pur appartenendo per anagrafe a questo destino, e forse proprio per il suo scrivere talvolta marginalmente, ne è sgusciato mirabilmente fuori e ha mantenuto fede alla promessa esplicitata in questo suo nuovo libro, «Racconta, scrivi», fin dal suo esordio a inizio anni Duemila con Questo transito d’anni. Forse perché chi intrattiene un vero dialogo con la poesia non ha tempo per imbastire strategie e intessere poetiche a priori.

È IL PASSO NATURALE e onesto di un cammino che si può fare insieme a dei compagni, o in solitudine, ma che non può arrestarsi e, anche quando, apparentemente, rallenta, sta in realtà aprendo una nuova via. Voce appartata eppure centrale per la poesia italiana, Zafferani fin dal suo arrivo a Roma da Terni per studiare Lettere all’università ha frequentato figure della cultura romana di enorme rilievo, da Riccardo Reim a Elio Pecora, da Anna Cascella Luciani a Roberto Deidier e Biancamaria Frabotta, della quale fu tra gli allievi più cari, fino a Maria Luisa Spaziani, Patrizia Cavalli, Antonella Anedda; ha scritto e scrive dei libri degli altri, ha curato il Premio Terni intitolato a Luciana Notari, oramai quasi del tutto (colpevolmente) dimenticata.
Otto anni: questo il tempo che ha preparato L’ora delle verità, una raccolta di ragguardevole valore nella quale, a farla da padrone, è la vista, l’occhio come senso più acuto. E l’occhio del poeta spazia moltissimo, come mai aveva fatto prima: nella ricerca quasi ossessiva di mappe (geografiche, linguistiche, affettive) da far emergere come una città perduta, si passa dalla campagna alla montagna, dal quotidiano gioco degli incontri a figure quasi mitologiche come la Sibilla montana. È un mondo, quello che si affaccia: «scoperto per approssimazione / e amato nel riflesso di un vetro di bottega / entrando nella materia a mano, a mano», ed è una realtà che ha in sé istanti di verità condivise, minori magari, ma vivide e necessarie come illuminazioni. Il tempo ha sulla poesia un effetto magico: dona alla voce una chiarezza di conquista, una apparente semplicità che, mantenendo intatto lo stile, affina la lama per far penetrare i versi più in profondità.

LO SA BENE Vivian Lamarque, e lo scopre in questo libro anche Zafferani, il quale, optando per una lingua piana, immediata, persino a tratti naif ma sempre elegantissima, consegna ai lettori e alle lettrici poesie di notevole impatto emotivo e di grande cura formale, in cui come una girandola i colori – i tempi, i punti di vista – si confondono senza mai creare una confusione, ma restituendo intatta la complessità del reale grazie a continui giochi di specchi, controcanti tra i capitoli, rimandi. Così «il tuo futuro qualcuno già lo vede / e mentre tu piangi lui stupisce», in un doppio angolo di osservazione che trova nell’eponima sezione e nella uscente «Sul finire» il suo dettato più alto.
Quqnto s’interroga il poeta, senza mai apertamente domandare, e quanto senza mai rispondere fornisce lampi di pura intuizione, rivelazione. Si chiede (e noi con lui) in quale posa durerà di più l’amore, e quanto il tempo atmosferico abbia a che fare con l’affollatissimo eden (tanto caro a Patrizia Cavalli) di nomi e volti sfumati, passati sulla terra leggeri. Un percorso polifonico e sorvegliato, quello dell’Ora delle verità, che prende congedo dalla pagina con la certezza che la poesia può davvero raccontare, doppiandola, la vita, e che la vita non è che «una lunghissima replica felice».