Arabpop, curato da Chiara Comito e Silvia Moresi (Mimesis, pp. 224, euro 18), racconta le rivolte scoppiate nel 2010-2011 in molti Paesi arabi attraverso l’arte, la letteratura, il rap, il fumetto. «Arabpop» è un neologismo in cui «pop» sta per famoso, riconosciuto, popolare.

SMARCANDOSI dal «dare parola» e dal «parlare per», il volume adotta uno sguardo innovativo: manda in frantumi la visione dicotomica sul mondo arabo «troppo subalterno» o «troppo arretrato», o comunque incapace di fare scelte per il futuro. Scrivono le curatrici nell’introduzione: «Nelle parole e nelle opere di questi artisti emerge un mondo arabo protagonista del proprio presente». I saggi raccolti, infatti, come fiumi carsici riaffiorano davanti a chi legge e indicano percorsi che testimoniano il rapporto tra cultura e lotta. Quello di Chiara Comito, dedicato al romanzo arabo, perlustra i cambiamenti sperimentati nella narrativa nel periodo post-rivoluzionario, trattando il ruolo delle opere di Alaa al-Aswani, Kamel al-Riahi, Mustafa Khalifa, con analisi su singoli Paesi, nuovi generi e premi letterari, con consigli per la fruizione della letteratura araba.

Catherine Cornet, invece, focalizza l’attenzione sulla «frattura estetica» post-rivoluzionaria delle espressioni artistiche, con un tracciato narrativo che prende in rassegna molti lavori, dal libanese Ayman Baalbaki al siriano Khaled Takreti. Diversi sono gli argomenti toccati: dal confine reale/digitale alla calligrafia, dalla memoria alla percezione del corpo della donna, fino alla situazione di oppressione imposta da Israele alle e ai palestinesi.

«CANTARE LA RIVOLUZIONE» è il titolo del capitolo di Fernanda Fischione. La musica è indagata a partire dal sarcasmo di Nixon Boba di Maryam Saleh, cantata in piazza Tahir. Se, come ricorda Ted Swedenburg, «la musica di protesa è stata profondamente legata e inserita dentro il movimento sociale», Fischione propone una genealogia di voci durante e dopo le proteste, con un focus, in chiusura di capitolo, sul rap levantino, dal tunisino Rais Lebled al marocchino Saad Lamjarred.
Si passa poi al fumetto con il contributo di Anna Gabai. Se questo tipo di espressione artistica è presente fin dagli anni Venti, il Libano ne è sicuramente l’epicentro. Mazen, Barrack Rima, Abdelazize Mouride, ma anche la libanese Lena Merhej: sono i tanti nomi, con le relative produzioni, prese in considerazione, che raccontano i conflitti interni e postbellici, ma anche la corruzione, la ribellione individuale e collettiva prima, durante e dopo il 2010.

La traiettoria di ricerca di Luce Lacquaniti parte dalla strada, e più in particolare dai muri che diventano gli archivi delle proteste. Tag, murales e scritte: il writing testimonia le violenze di conflitti e confini in Palestina e Libano, ma anche le pratiche di resistenza. Sui muri compaiono gli slogan delle piazze insorte che vogliono la fine dei regimi, la libertà, che inneggiano alla rivoluzione del popolo, che pretendono spazi di agibilità politica, denunciando la repressione.

Il capitolo di Silvia Moresi è dedicato alla poesia. Nuovi stili, che rompono con la tradizione, raccontano la scintilla che innescò la rivolta in Tunisia (Andrea Assaf) e in Egitto (Tamim al-Barghuti), le falsità della cultura imposta (Hisham al-Gakh). La ricerca di una «soluzione letteraria» alla fine dei processi rivoluzionari trasforma la poesia nel luogo in cui, nonostante il ritorno al passato, è ancora possibile trovare stimoli e motivazioni. È una rivolta culturale che continua, verso dopo verso, trasgredendo ai modelli disciplinari e culturali.

Di performance, azione politica e spazio pubblico si occupa Anna Serlenga: il lavoro di Rabih Mroué denuncia il modello occidentale, il rapporto tra storia, cultura e arti performative; quello di Alexandre Paulikevitch riflette sul ruolo del corpo nel lavoro artistico. Serlenga prende poi in esame la scena tunisina, la rilevanza dei contenuti e delle pratiche politiche dei festival «Chouftouhonna» e «Dream City», della compagnia Brotha form Another Motha.

Olga Solombrino, infine, si occupa del cinema. 18 Days, Tahrir 2011, The Square, In the last days of the city: sono solo alcuni dei titoli che riguardano i processi rivoluzionari. Anche lo stile documentaristico è analizzato tra denunce di oppressione, violenze subite e traumi sociali. L’ultima parte è dedicata alle donne dentro gli schermi e dietro la macchina da presa.