Un Keith Jarrett meno virtuoso e più minimale, perso in labirinti progettati da Brian Eno. Suona così l’inizio del primo lavoro in solo del pianista svizzero Stefan Aeby, frutto di tre anni e mezzo di incubazione e di riflessione sul processo di incisione di un disco.
Lo studio di registrazione come strumento dunque, come laboratorio alchemico nel quale dare vita al suono: tutto ha origine dal pianoforte acustico, che però viene distorto, modificato o processato.

DA QUALCHE PARTE a metà strada tra le vie segnate dall’elettronica più rarefatta, certe malinconie un po’ risapute di scuola Ecm e un gusto pop che farà contenti gli ascoltatori che hanno bisogno di restare nella comfort zone ma anche di esplorare a piccoli passi l’inaudito: brume riflessive da cui nei momenti più rarefatti affiorano ombre di Paul Bley o di Erroll Garner (la rivisitazione della sua Misty), quattordici tracce come segnali mandati da terre in via di esplorazione, ipotesi di Real Book virato ambient, una lettera scritta a mano e sommersa dalle foglie di un autunno elettroacustico sotto una lenta pioggia jazz.