In Egitto non c’è democrazia e le parlamentari in corso sono una farsa. Il paese delle rivolte di piazza Tahrir non sta attraversando nessuna transizione democratica ma un consolidamento del regime militare del golpista Abdel Fattah al-Sisi dopo trentacinque anni di autoritarismo.

Il premier Ismail Sherif, ex ministro dell’Energia, succeduto a Ibrahim Mahleb dopo un rimpasto di governo sulla scia della soddisfazione per la scoperta del mega-gasdotto al largo di Port Said, ha annunciato che l’affluenza è ferma al 16%. Domani si sapranno i primi risultati delle elezioni in corso in 17 governatorati. Il secondo turno si svolgerà dal 21 al 23 novembre in altri tredici governatorati. Con i relativi ballottaggi, il farraginoso meccanismo elettorale egiziano, messo in piedi per disattivare qualsiasi tentativo distinto dal completo controllo sull’elettorato del neo-nasserismo di al-Sisi, dell’islamismo radicale salafita di al-Nour e del nazionalismo dei mubarakiani, si concluderà il 4 dicembre con il certo successo dell’ex generale, ora presidente, pronto sempre a indossare la sua divisa militare, come avvenuto con l’inaugurazione dell’estensione del Canale di Suez.

La legge elettorale che conferisce il 79% dei seggi a candidati indipendenti affossa ogni forma di pluralismo politico e multi-partitismo, solamente abbozzati ai tempi della giunta militare (2011-2012).

Il solo nome della lista di al-Sisi «Per l’amore dell’Egitto», che include i liberali del Wafd e i copti di Sawiris, rievoca il suo richiamo ad un vuoto populismo. Per il generale qualche sorpresa potrebbe venire dal Fronte egiziano che include gli ex uomini di Mubarak, riabilitati dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013, e che conta, come candidato ombra e leader non in lista, lo sconfitto da Morsi nel giugno 2012, Ahmed Shafiq. Lo spazio per le correnti e alleanze socialiste resta risicatissimo, considerando anche il risultato inferiore al 2%, ottenuto alle presidenziali del 2014, con i seggi anche allora deserti, dall’ex sindacalista Hamdin Sabbahi. Movimenti antagonisti, i fuori legge Fratelli musulmani, primo partito in Egitto nel 2013, hanno deciso di boicottare i seggi in polemica con la durissima repressione in corso.

Il think tank Democracy International ha denunciato di non aver ottenuto i visti necessari per monitorare il voto. Molti osservatori hanno parlato di violazioni fuori dai seggi, inclusi episodi di voto di scambio da parte di singoli candidati. Alcuni rappresentanti della Lega araba sono stati fermati all’ingresso dei seggi. Mohamed Abdu Salah del Club dei giudici ha riferito di diffuse violazioni di legge. Provvedimenti restrittivi sul voto per le donne sono stati presi alla vigilia del voto. Secondo questi regolamenti intimidatori, le donne completamente velate o con abiti succinti non avrebbero potuto prendere parte al processo elettorale.

Alla vigilia del voto, al-Sisi ha concesso l’amnistia a cento detenuti, inclusa Sana Seif, coinvolta nella marcia verso il palazzo presidenziale del giugno 2014. Ma tutti i più genuini attivisti di sinistra e islamisti moderati restano in carcere. Parte del muro di via Mohamed Mahmud che ospitava i graffiti della rivoluzione è stato demolito mentre prosegue senza sosta la distruzione delle case, senza ricompenso, a due passi dal valico di Rafah per la costruzione della zona cuscinetto con Gaza, come da accordi con Israele. Eppure continue cospirazioni e colpi di mano, come è successo all’interno del ministero dell’Interno e della Giustizia, potrebbero ripetersi e segnare anche una nuova ascesa in parlamento delle cliques del formalmente dissolto Partito nazionale democratico di Mubarak e con il tempo indebolire il disegno di al-Sisi.