Film che traduce un incubo, un incubo reale, oscuro, in cui si configura un intero continente, con le sue foreste, le sorgenti, l’aria, il suolo: tutto appare devastato, distrutto, divorato dal traffico della carne, della carne cruda dei milioni di animali abbattutti ogni giorno, enormi brani di carne da braccare, commercio serpeggiante e silenzioso in tutto il territorio. Incubo spaventoso. La carne degli animali, il silenzio degli animali, l’approviggionamento da parte del “progresso”, il disfacimento della terra, la creazione di leggi, la corruzione di alti funzionari dell’amministrazione pubblica… Automobile e carne – due forze del futuro, del disastro futuro – operano con massima forza nel momento nazionale della fragile situazione umana, da cui l’orrida suppurazione, la purulenza delle piaghe, emerge alla superficie di un naufragio. Naufragio della navigazione umana in cui la sentina dell’imbarcazione è straboccata per il colpo violento.

Una voce femminile evoca e annuncia un nuovo orbe serafico. La voce femminile parla del futuro, del proprio futuro come passato, il lontano passato del suo futuro. Il suo ritmo, il suo essere presente ordina, disordina e in stato di transe pone l’ordine fuori dall’ordine. “Configurations particulières du mouvant” è la figura nella quale Émile Benveniste aveva pensato il “rhuthmos” greco. La trama palla di fuoco, arrivata da un cielo distante, fa sentire il silenzio concentrato della durata. Forza critica sconcertante che altera e devia completamente la rotta dirigendosi fuori dal cerchio. In filosofia si chiama “movimento aberrante, movimento che va dalla sensibilità al pensiero esigendo da ciascuna facoltà uno sforzo di trascendenza”.

La memoria della bellezza, del bagliore, depista la morte: il bosco incantato; le pietre delle fortezza preistorica; la luce e l’aria nello splendore; il lago leggendario; la roccia filosofica piramidale; la spuma delle onde; la pesca alla maniera antica; una lunga fila di pescatori che tirano con tutta la loro forza la corda della rete dal mare; la corda della morte; l’augurio di sparizione; il presagio funesto delle gocce di sangue sparse tra le orme sulla sabbia; l’onda interrotta che non realizza il suo movimento di curvarsi; il richiamo della campana che interrompe il tocco ponendo fine al sogno delle tracce antiche; ognuna delle scene qui ordinate in sequenza segna il ritmo del movimento dell’esistenza nei luoghi indicati e quasi segreti del mondo…

Confessioni di una vedova a un pappagallo. Il pappagallo, antico guardiano della memoria delle cose antiche, che incanta con il suo modo curioso e irresponsabile di parlare, è anche capace di ironie attiche per filosofi. Il pappagallo starà in scena come compagno, confessore e depositario delle parole e di alcune azioni della vedova. Una brocca con acqua cristallina di fonte risplende al centro del tavolo di lavoro. Non lontano, dentro un piatto, una grossa bistecca di carne cruda partecipa alla scena.

Ecco quello che dice la vedova, nella sua prima apparizione:

Il mio nome è Siloé. Nella mia vita l’immaginazione, la musica, la poesia, i miei sogni, tutto questo è reale. Ho vissuto sempre a briglia sciolta. Nel chiaroscuro in cui errano le anime. Sono vedova da tre anni. Mio marito morì d’improvviso nel corso di un viaggio che facemmo per luoghi quasi segreti di questo mondo, ad ascoltare e vedere orme antiche. Luoghi incantati. Luce. Colore. Musica. Danza. Il canto notturno degli uccelli orientali. Un mondo che mi lasciava vicina ai miei maggiori sogni. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, lo stesso diletto, lo stesso mistero. Una fatalità ha bloccato qualsiasi possibilità di meraviglia. Mio marito è morto in una bella mattina mentre eravamo sulla spiaggia, a camminare sulla sabbia e sulla spuma delle onde, a osservare gli uccelli, i pescatori, l’orizzonte, tutto quello che per noi era un mondo nuovo… Fu quando… quando mi sentii sola. Guardai indietro e vidi il suo corpo caduto sulla riva del mare. Corsi verso di lui. Era morto. Morto nel luogo in cui sembrava esserci l’inizio di una nuova vita. Morte fulminante. In una mattina di sole, di acque limpide, di mare sereno, di temperatura gradevole… Sono vedova da tre anni.”

Questo dice Siloé, vedova da tre anni, donna colta e occulta e tranquilla e matura e distante e lunare, fuori dall’atmosfera che respiriamo. Legge sempre, molte volte, a voce alta. Parlare con un pappagallo è transitare per una via archeologica e anacronica che estende e che percorre una grande migrazione culturale e geografica, nello spazio e nel tempo. Procedimento di lungo corso nell’escavazione della memoria, nel movimento della memoria che lavora, parlare col pappagallo suggerisce l’esercizio ancestrale del divenire. Il pappagallo che Humboldt incontrò in America del Sud nel XIX secolo articolava una lingua sconosciuta, strane storie, miti, costumi di una tribù di un mondo estinto, perduto. Rivelava che il grande accumulo del fondo della memoria ancestrale, dettato al misterioso uccello, stava in lui depositato e custodito. L’acustica, l’audizione, la parola, la memoria di un così curioso uccello, piccolo tesoro dal becco curvo e penne colorate, era guardiano, testimone duraturo, tenace, di una cosmologia divina. L’uccello, che gli europei non conoscevano, era considerato una ricco piumato riferito al Paradiso terrestre… Il pappagallo appare per la prima volta in una mappa del 1519 dove il Brasile è chiamato “Terra dei Pappagalli”.

Siloé è il nome di una fonte d’acqua miracolosa ai piedi del monte Sião. Fecero lì una vasca in cui Gesù mandò un cieco dalla nascita a lavarsi dopo avergli posato negli occhi un poco di limo fatto con la sua saliva… Miracolo della visione. L’acqua nella sua essenza viva irradia lo spazio che la circonda e la presenza sensibile dell’infinito.

Un’enorme fatalità obbliga al silenzio, allo sguardo interiore. Nella quiete delle cose scorre, sordamente l’immanenza del divenire Divenire trasportato da tutti i flussi in un venire l’essere in abisso, solleva aree insperate in cui si disegnano configurazioni inusitate. Nuove incarnazioni e reincarnazioni, una ad una allacciate, vengono ri-orchestrate. Avvicinare distanze, Engandina e Kovalam, tagliare, unire, montare, inventare luoghi nella sovrana immaginazione, dalle onde del lago Silvaplana alle onde del Mare di Arabia, un ampliamento metafisico dell’invisibile, il lussso del coraggio, coraggio oggi raro, di immaginare destini, angoli diversi nel particolare e nell’insieme delle cose. Le immagini iniziali di Engandina e di Kovalam, lentamente rimembrate durante l’intero film, ricordi che intessono la trama come agenti e reagenti formali ricorrenti nella configurazione, nel desiderio di altro mondo in questo mondo…

Segnali della costruzione di un luogo: vestigia poderose di una fortezza romana nelle Alpi svizzere, a 2200 metri di altezza, la riva del lago di Sils Maria, in un angolo chiamato Chasté. Accanto alle grandi pietre di queste rovine un filosofo desidererà, inutilmente, di costruire una piccola dimora in cui vivere e morire. Poco oltre si aggancia un altro lago, il Silvaplana. Lo stesso filosofo, frequentatore del luogo per ripetute volte, intravide il suo Zaratustra, l’Eterno Ritorno, nella seducente pietra di forma piramidale, al bordo del lago. Un taglio di montaggio unisce la roccia di Surley alla spiaggia di Kovalam, nel sud dell’India, dove la pesca nel Mare d’Arabia esiste da 4000 anni, fatta con la stessa forza viva, lo stesso braccio, lo stesso lancio, lo stesso polso, lo stesso ritmo, lo stesso canto. Cultura millenaria, e vicino al mare templi di ogni colore dove sono venerati dei antichi, foresta di palme da cocco su cui cinguettano diversi e svariati uccelli inquieti tra la volta del cielo e il mare leggendario…

Luoghi incantati, paesaggio filosofia, la foresta sempre oltre, la luce negli alti rami dei pini secolari, attraverso i quali traspare un sole freddo. Le rovine della grandezza del passato, il riflesso delle nuvole e delle montagne nello specchio del lago, la spuma delle onde, il crepuscolo riflesso nei volti lavorati dal tempo, un lontano coro di voci che si disperde per la spiaggia, i corvi sulla riva del mare, sono momenti di filosofia oltre il testo filosofico. Luoghi incantati.

Rimemorare dolorosamente un passaggio della vita, della vita di qualcuno in cui l’immaginazione e la musica erano realtà, evocare un passaggio incantato come nei nostri migliori sogni, ma in cui una sciagura del destino viene a sbarrare qualsiasi meraviglia. La morte inaspettata, là dove tutto indicava esserci l’inizio della vita, di una nuova vita, produce un tremore che scuote tutto il corpo sensibile. La regione della luce che alimenta la sensibilità peregrina viene invasa da una bruma dissimulata che la oscura…

Notte vecchia, notte antica, il suono distante delle onde del mare, il canto notturno degli uccelli di Kovalam. La musica del canto degli uccelli risuona nella notte Orientale. Siloé sogna. Sogna con l’anelato uccello dal colore della notte, con il suo manto di piume, di essere perseguita, di essere toccata nelle labbra, di ravvivare un’estrema sensibilità orale, così come nel famoso sogno di Leonardo da Vinci. Picus, l’uccello mitologico, antico dio detronizzato da Giove, che possedeva come attributo della sua antica divinità una foglia misteriosa, una foglia talismano, il cui potere meraviglioso spezzava qualsiasi resistenza. Apre la caverna di Venere. Amore per l’uccello, per il canto, per lo scuro delle piume, per il medesimo fantasma amoroso che percorre i secoli. Un punto intenso di desiderio domina il corpo di Siloé, la sua più recondita membrana reagisce sensibile al tocco di determinate piume. Risvegliata nelle nervature intime, cola nelle sue fibre, comunicandosi ai muscoli, il flusso dei sensi, subito la delicata piuma scivola sulla sua pelle, liscia come seta, dolce come oppio. In un impulso loquace Siloé si azzarda a dire “piuma perfetta per muoversi tra le labbra e il piccolo organo erettile. La celata membrana, in un soave impulso ascensionale, si discopre e viene fuori, si mostra per intera, in una carezza ininterrotta. Forte godimento, narcotico, siderale, delizia di delicatezza e soavità. Conoscenza, esperienza, dove l’uomo è generalemente un ignorante e un grossolano…”

Siloé, la resistente Siloé, la scrittrice raffinatala la cui vera filosofia consiste nella reminiscenza, nell’allegria di nuotare per la memoria in rimembranze, lettrice appassionata delle curiosità verbali di ieri, di oggi, di domani, della vita intera, in mezzo ai detriti si impone a se stessa con grande tenacia, e tuttavia, sola in lotta impari, la sua fermezza soccombe al poderoso invasore, al pesante dominio, l’allucinata brutalità della carne divoratrice. La carne cruda assale, nasconde, soffoca.

Sempre presente nella scena, la grande bistecca di carne animale, fino ad ora immobile, comincia a muoversi. Si avvicina alla vedova. Comincia a seguirla, nel bagno, sulla scala, in strada, nel cortile, nello studio, da qualsiasi parte. La incalza da vicino, passo dopo passo, fino a sopravvanzarla e assalirla. Siloé, paralizzata, smarrita, subisce fustigato attacco, la carne attornia il suo corpo, penetra attraverso i suoi vestiti, la invade da dentro e da fuori, coprendola di piaghe, la carne soprannaturale…

Il piano sequenza finale dell’assalto della carne alla bella Siloé, stordita nel momento in cui la carne cruda germina incollata al suo corpo già posseduto, è un’immagine allusiva. Allude al fotomontaggio di ectoplasmi realizzato nella sessione del 5 gennaio 1913 nel circolo spiritista francese della medium Marthe Béraud. Si tratta di fotografie manipolate, sovrimpresse l’una all’altra, che poeticamente simulavano un ectoplasma. Sopra la fotografia della medium in transe era ritagliata un’altra fotografia, questa di una sostanza informe, una densa melma che penetra nel corpo, falsificando, creando l’illusione duratura di un ectoplasma.

Somigliante a un’apparizione, la viscera, la trippa fredda di carne, tocca nel corpo vivo di Siloé, si incolla in lei. E sprofonda, non diversamente da certe città favolose coperte dalle acque in seguito a un cataclisma catastrofico. Lo schiacciamento è lento e completo. Io, ridotto in frantumi, soffoco nel banchetto dell’oscurità…

(traduzione dal portoghese di Roberto Turigliatto)