Quando in un ormai lontano 1976, Marian Engel, scrittrice tra le più impegnate sulla scena del Rinascimento canadese, diede alle stampe Orso (ora riproposto da La nuova Frontiera nella traduzione di Veronica Raimo, pp. 126, € 17,00) non immaginava di certo che il suo quinto, breve romanzo, avrebbe generato un vero e proprio scontro tra coloro che, entusiasti, gridarono al capolavoro e coloro   – a partire dall’allora molto influente critico John Moss – che non lo considerava nemmeno «molto buono», evidenziandone chi gli aspetti erotici e trasgressivi, chi quelli romantici, nonché una sorta di peccato di ingenuità nello sviluppo della trama, a un primo sguardo decisamente improponibile. Tutti, però,  lodarono l’alternarsi di toni tragici e ironici. La storia di Lou, ricercatrice di un immaginario Historical Institute di Toronto, delusa e frustrata nelle proprie ambizioni, che viene inviata in una sperduta isoletta nel nord dell’Ontario a catalogare una biblioteca donata dagli eredi di uno strampalato colonnello, scivola nell’improbabile quando essendosi la donna trovata  a accudire un vecchio orso tenuto in cattività, entra con esso in confidenza, fino a scambiare veri e propri atti sessuali. La storia tuttavia funziona se la si interpreta come una metafora, da un lato, della lotta difficile e dolorosa per l’emancipazione femminile nella società dell’Ontario dei primi anni Settanta, dall’altro di quel rapporto conflittuale e irrisolto con la natura, che riguarda – nel bene e nel male – l’intero corso della storia e della letteratura canadese: il «Bush Garden» di Northrop Frye o, per dirla con Amleto (e con Agostino Lombardo), «quel giardino non sarchiato», la wilderness primigenia e incontaminata, il Leviatano biblico, che da sempre attrae e respinge, atterrisce e blandisce quanti, volenti o nolenti, si trovano a dovercisi confrontare, senza distinzione di genere e di sesso.

Non a caso, il nome della protagonista è neutro («non binary» o «agender», si direbbe oggi) proprio a sottolineare il carattere universale della ricerca identitaria intrinseca a questo solitario viaggio verso il nord e verso l’ignoto. Un viaggio non certo originale e, per molti versi, simile a quello intrapreso poco più di cento anni prima dai Poeti della Confederazione in un momento epocale quale il passaggio da colonia a Dominion, un viaggio che ciclicamente si ripropone, all’interno dei vari generi letterari, come momento di confronto con quello che Irving Layton, esponente tra i più importanti della Scuola di Montreal, ha definito il «freddo verde elemento» e di riappropriazione della propria identità. Una ricerca simile a quella affrontata, qualche anno prima di Engel, da Margaret Atwood in Tornare a galla (Surfacing), con il quale il confronto è obbligato. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una giovane donna che torna a immergersi in quel mondo naturale che costituisce l’essenza dell’identità canadese e che l’urbanizzazione ha alienato e in cui le singole realtà dove l’essere umano si trova ad agire e a confrontarsi sono da sempre isole, circondate e separate dal vuoto e dall’assenza. Attraverso il rapporto con l’orso, Lou simbolicamente recupera l’equilibrio originario del vivere secondo natura e, così facendo, rinnova la propria identità femminile e quella del Canada, le porta nell’abbraccio sessuale che si realizza a sovrapporsi e al fondersi l’una nell’altra, a generare una rinascita che non è il frutto di un abbrutimento e di una sconfitta ma, in una linea di continuità con il passato, si configura come una lotta contro la violenza della vita moderna o contro «l’innevata indifferenza della natura». Ennesimo sforzo di antropomorfizzare il paesaggio e di conferirgli, attraverso quelli che Frye chiama i poteri dell’immaginazione, una forma articolata e finalmente originale. Il grande merito di Engel e di questo suo piccolo capolavoro, la cui forza eversiva a distanza di quasi cinquanta anni resta inalterata, sta anche nel riprendere e amplificare quella peculiarità della letteratura canadese delle origini, di una letteratura, cioè, nelle parole di Margaret Atwood, «scritta da donne e che parla di donne».