La riduzione dei tempi di vita consegnati al lavoro è un tema che nasce insieme al movimento operaio moderno e da sempre ne rappresenta uno degli obiettivi più importanti, con l’aumento dei salari e il miglioramento delle condizioni di impiego. In Italia nel 1902 il governo Zanardelli fissò a 12 ore il limite massimo giornaliero. Quattro anni dopo i metalmeccanici di Torino scioperarono per abbassarlo a dieci. Nel 1919 Fiom e Federazione degli industriali metallurgici strinsero un accordo per le 48 ore settimanali. Nel 1923 le otto ore al giorno e 48 a settimana furono estese per regio decreto a tessili e braccianti. Nel 1960 la Cgil discusse nel V congresso nazionale il progressivo raggiungimento delle 40 ore settimanali. Tra il 1968 e il 1969 nuove riduzioni dell’orario furono inserite nei rinnovi contrattuali dei principali settori industriali.

E OGGI? «Può essere il XXI secolo il tempo dei quattro giorni e delle trentadue ore di lavoro a settimana?», chiede Fausto Durante, già segretario della Fiom di Lecce e dal 2019 coordinatore della Consulta industriale della Cgil. La risposta è nel titolo dell’agile volume pubblicato insieme all’introduzione di Maurizio Landini: Lavorare meno, vivere meglio (Futura editrice, pp. 104, euro 12)
Perché è questo il momento di ridurre l’orario di lavoro viene spiegato attraverso uno sguardo ampio sulle dinamiche sociali contemporanee e l’analisi di casi concreti. Durante mostra come lavorare meno abbia effetti positivi dal punto di vista climatico, occupazionale e persino produttivo. Non si tratta di speculazioni, ma dei dati empirici che vengono dai contesti in cui gli orari sono stati ridotti senza toccare i salari: le 35 ore francesi, le 28 possibili per i metalmeccanici tedeschi o il caso emblematico dell’Islanda dove a giugno scorso l’86% dei lavoratori godeva di un orario ridotto.

Secondo Durante la via maestra per praticare questo obiettivo anche in Italia è la contrattazione collettiva, facendo leva sui dati che mostrano come alla diminuzione del tempo di lavoro corrispondano aumenti dei livelli di produttività. Che a loro volta dovrebbero migliorare le condizioni dei lavoratori. Per quasi un secolo è successo, ad esempio, nel rapporto con i salari. Le serie storiche citate nel libro dicono che tra l’inizio del Novecento e i primi anni Ottanta le curve dei livelli di produzione e di retribuzione avevano andamenti simili. Successivamente la prima ha continuato a crescere mentre i salari hanno perso terreno sia rispetto alla produttività che al costo complessivo della vita.

QUEL RAPPORTO, infatti, più che un automatismo economico era il risultato artificiale di fattori politici, cioè della materialità dei rapporti di forza. Dagli anni Ottanta si registrano una generale diminuzione della conflittualità sociale e la progressiva frammentazione del mondo del lavoro. Quote crescenti di non garantiti restano esclusi dalle conquiste che, in termini di salario e diritti, erano state ottenute dalle lotte della stagione precedente.
In questo contesto il tema discusso da Durante ha una particolare rilevanza, perché riguarda trasversalmente le diverse categorie e condizioni lavorative. Anzi, riguarda maggiormente le componenti più precarie e meno sindacalizzate. Per esempio nei settori del lavoro immateriale, della gig economy o nei tanti ambiti legati a web e informatica, dove spesso i tempi di vita e lavoro si confondono e i secondi divorano i primi. Per questo è auspicabile che la riduzione dell’orario di lavoro sia interpretata dai sindacati come un potenziale terreno di conflitto, su cui provare a ricomporre bisogni e desideri dei tanti mondi del lavoro che convivono nella contemporaneità.