David Harvey, la cui opera è stata pressoché tutta tradotta, compresi questi saggi preparatori di un percorso di ricerca che ha avuto l’ultimo, in ordine di tempo, appuntamento con il volume Marx e la follia del capitale (Feltrinelli), nasce accademicamente come geografo.

Sua è una monografia sullo statuto di questa disciplina – Explanantion on Geography – , ritenuta una forma di sapere tesa a legittimare i rapporti di potere dominanti. Harvey faceva sua e sviluppava la tesi che in geografia tutto potesse ruotare attorno all’asse Atlantico. Molte, aggiungeva, sono state le ricerche «storiche-geografiche» sull’Europa e gli Stati Uniti, quasi insignificanti quelle sul resto del mondo eccetto per la stesura delle mappe, strumento indispensabile nelle politiche di conquista coloniale. Lo aveva d’altronde scritto John Locke, il primo filosofo illuminista seppur scozzese che ha per primo legittimato il colonialismo.

È DURANTE l’approfondimento delle «relazioni spaziali» che Harvey – allora giovane docente a Baltimora – si imbatte nelle problematiche dello sviluppo urbano, diventando un militante dei movimenti sociali metropolitani statunitensi. Ed è in quegli stessi anni – inizi Settanta – che legge Henri Lefebvre, filosofo al quale ha da allora riconosciuto un debito incancellabile perché ispiratore della sua analisi del regime di accumulazione capitalistico dove lo spazio è il limite da superare o la bestia da addomesticare da parte del capitale.

A Lefebvre, Harvey dedicherà molti saggi come Città ribelli (Il Saggiatore) e Il capitalismo contro il diritto alla città (ombre corte), libri che hanno contribuito – almeno in Italia – a una renaissance di Lefebvre, come testimonia la ristampa di La produzione dello spazio (Pigreco).

I testi presentati in questo volume – Geografia del dominio, ombre corte, pp. 138, euro 12 – sono da considerare non come un’introduzione alla sua opera, ma alla stregua di materiali preparatori di quel lavoro di ricerca che – dalla metà degli anni Ottanta del Novecento fino a ora – ha scandito la produzione teorica del geografo statunitense, rivelando già all’epoca i nodi teorici che l’hanno portato a cambiare più volte le traiettorie della sua teoria delle «relazioni spaziali» che assegna allo spazio il giusto posto nella critica dell’economia politica accanto alla dominante categoria del tempo.

PER HARVEY, lo spazio e l’«urbano» sono progettati in funzione della produzione di merci. Le infrastrutture fisiche (i trasporti e le comunicazioni), finanziarie (banche, sistema del credito) e sociali (welfare state, ma anche formazione e ricerca scientifica) sono fondamentali per gestire e ridurre il tempo di ricambio socialmente necessario alla circolazione del capitale. Più è contratto, ridotto, più la crisi è scongiurata, perché i profitti possono essere reinvestiti per favorire la riproduzione allargata del capitalismo.

ALTRE REALTÀ geografiche, regionali, nazionali, continentali possono così aggiungersi a quelle già operanti nel regime di accumulazione. Per fare questo, e per ridurre il tempo di ricambio socialmente necessario nella circolazione del capitale, lo spazio deve cessare di essere un limite e un vincolo: per questo deve essere prodotto politicamente.

Qui, va detto, il concetto di produzione di David Harvey incontra il postmoderno. Si produce spazio, favorendo le infrastrutture, incentivando la ricerca scientifica, ma anche favorendo la proliferazione degli stili di vita e della cultura, perché il capitale cresce e si sviluppa attraverso le differenze, la molteplicità, l’eterogeneità sociale, culturale, di genere. L’omogeneità segna semmai l’insorgere della crisi, fattore immanente al capitalismo. Il postmoderno è dunque la logica culturale del capitalismo maturo, ma può tuttavia aprire la via a una politica radicale e anticapitalista perché favorisce l’insorgere della lotta di classe e dell’insubordinazione del lavoro vivo sempre più articolato al suo interno.

Per giungere a queste conclusioni Harvey ha corretto spesso il percorso di ricerca, mettendolo sempre in relazione con i movimenti sociali e facendo i conti con l’egemonia del neoliberismo e con la sua crisi. Si è inoltre misurato con il potere performativo della finanza, assumendo cautamente le distanza da una visione economicista del lavoro vivo.

L’ETEROGENEITÀ è un fattore ineludibile della classe, a partire da quel proletariato urbano che, sulla scia della critica della vita quotidiana di Henri Lefebvre e del modello politico della Comune di Parigi come esempio di una eterogeneità politicamente radicale, non è mai ricondotto a una sola figura produttiva e lavorativa. Temi come la razza, il genere, persino il tipo di lavoro diventano componenti che fanno sì che non ci possa essere nessuna sintesi o ricomposizione dall’alto (il partito o il sindacato) per creare omogeneità.

In questo libro, di tutto ciò c’è evidenza in quanto programma di lavoro. Ci sono gli antecedenti, le premesse, le problematiche, ma lo svolgimento, questo il pregio del volume, è visto come un processo in atto. Le prassi teoriche sono come lo spazio: vanno prodotte perché sono quel divenire politico del pensiero critico che prende forma nel fare movimento.