In uno dei suoi romanzi più famosi, La peste (1947), Albert Camus scrive che «le epidemie ci insegnano». In un libro meno famoso ma più recente, La febbre (2018), Ling Ma (recensito su queste pagine da Benedetto Vecchi il 3 luglio del 2019, ndr) scrive che «dopo la Fine (causata dall’epidemia di febbre al centro del suo romanzo distopico, nda) arrivò l’Inizio». Insomma, la modernità, così orgogliosa delle sue conquiste, non incontra le epidemie solo come fatti epidemiologici e naturali bensì come soggetti sociali e politici in grado di rimettere in discussione l’ordine sociale e di farne emergere le più stridenti contraddizioni: la peste, l’epidemia, portano con loro anche una malattia morale e, sgretolando il passato, aprono le porte a nuove possibilità, regressive (più spesso) oppure di avanzamento sociale (più raramente). Far emergere una coscienza post-apocalittica – nel senso di rendere consapevoli le persone di ciò e quindi di evitare che divengano semplici «oggetti» da manipolare all’interno di rivoluzioni passive gestite solo dall’alto – è l’obiettivo principale del nuovo libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo (il Mulino, pp. 180, euro 15).

IL LIBRO di Giaccardi e Magatti è per questo motivo pieno di speranza poiché la speranza – come ci ha insegnato Bloch – vuol dire dare valore a qualcosa che si desidera per il futuro, combattere per affermarla, consapevoli della possibilità concreta che si verifichi l’esatto contrario: alla pandemia di Covid occorre guardare senza ottimismo né pessimismo per il futuro. Eppure come possibilità aperta di ricostruire un intero assetto sociale profondamente deficitario e in bancarotta già prima dell’epidemia.
La narrazione globalista, impostasi dopo la caduta del muro di Berlino, incentrata sul modello di un capitalismo senza confini, incontrollato e incontrollabile che genera, attraverso l’ipertrofia della tecnica, l’esaltazione di soggetti solitari, iper-stimolati, compiaciuti della propria inarrestabile volontà di potenza che violenta l’ecosistema e svilisce i rapporti umani, eternamente inquieta e ansiogena, come lo sono le élite socialmente irresponsabili che l’hanno alimentata, è finita per sempre: la pandemia è solo l’ultimo evento catastrofico di una triade costituita dall’undici settembre e dalla crisi economico-finanziaria del 2007 che hanno mostrato l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. In questo contesto, cosa ci insegna la pandemia? Per Giaccardi e Magatti un valore fondamentale che, a dire il vero, era stato rintracciato come tale da alcuni grandi sociologi a cavallo del XX secolo, come la risorsa fondamentale e, allo stesso tempo, la grande fragilità della società moderna: l’interdipendenza – o meglio, l’inter-indipendenza, come la chiamano gli autori – tra persone, ruoli, funzioni e paesi del mondo. Il fatto che la libertà di ciascuno non finisce dove inizia quella dell’altro (secondo la vulgata liberale); ma, al contrario, è sostenuta e possibile solo assieme e grazie al riconoscimento e alla presa in carico, alla cura, dell’altro. Il familiare, l’amico come l’estraneo.

SOLO ATTRAVERSO comportamenti responsabili possiamo garantire la salute e la sicurezza nostra e degli altri. Solo avendo consapevolezza che si appartiene a una comunità. Solo riconoscendo che la dimensione del «pubblico», del «sociale», dello «Stato» continua a essere fondamentale per poter garantire un presente e un futuro degno. In poche parole, ritorna al centro la solidarietà sociale e la cittadinanza come insieme di diritti e doveri che ci liberano dall’infantilismo del neoliberismo. Se Beck e Bauman, con i loro modelli della società del rischio e della modernità liquida, sono i sociologi che più volte vengono richiamati da Giaccardi e Magatti come gli intellettuali che, prima e meglio degli altri, avevano capito i limiti del globalismo e la direzione verso cui muoversi per superarli, è Émile Durkheim il vero vincitore intellettuale di questa partita poiché fu questo grande padre fondatore della sociologia, oggi frettolosamente e non a caso dimenticato, già a fine Ottocento, a indicare chiaramente tutte queste dimensioni come fondamentali per assicurare un futuro sostenibile alle fragili società moderne, troppo spesso incantate dalle sirene dell’individualismo di mercato. E anche la sinistra dovrebbe ricominciare a ricordarlo per uscire dalle secche in cui una ormai mortifera prospettiva della «terza via», in nome del globalismo, l’ha precipitata da almeno trent’anni.