Continuano le peripezie di Telecom e Alitalia. Incombono a breve quelle di un’altra grande impresa italiana finita sulle bancarelle: Finmeccanica, il conglomerato residuale di aziende partecipate dallo Stato che sta trattando la cessione del proprio settore «civile» ai coreani di Doosan.
In questo quadro desolato sembra impossibile che ancora pochi anni fa venissero bacchettati quanti osavano parlare di «declino industriale». Infatti l’ordine di servizio era quello di insistere sugli illusionismi delle eccellenze nostrali con annesso genio italico. Nel frattempo si perdevano alla grande quote di export, scompariva quell’impresa di taglia maggiore (oltre i 500 addetti), che nel lontano 1951 occupava un quarto della nostra forza lavoro. Tra starnazzamenti da convegno sui rilanci economici prossimi futuri, si spegneva l’intera struttura produttiva italiana; compreso l’ultimo mito (il cluster distrettuale) che ora lascia tracce della propria transumanza dalla Terza Italia al nulla sotto forma di capannoni vuoti. Lo scippo della «Questione Settentrionale» su cui i sociologi di pronto intervento campavano da anni.
C’è un ché di irreale nell’odierno stupore dei commentatori economici davanti alla notizia annunciata delle recenti catastrofi; nel cosiddetto «capitalismo relazionale» ad alto tasso di collusività (gran parte dell’informazione compresa).
Un lungo addio, perché il sistema produttivo italiano ha smarrito la propria vocazione manifatturiera già all’inizio degli anni Settanta, assecondando l’intrinseca connotazione da «gatekeeper» (guardianaggio di varchi grazie a vantaggi ottenuti in sede politica). La metafora di Braudel in versione straccione, per cui sopra «la sfera rumorosa del mercato» c’è la stanza dove il possessore del denaro incontra il possessore del potere politico. Ossia l’attitudine del padronato più votato allo scambio di potere a presidiare flussi nella logica del taglieggiamento (monopoli di transito: finanziari, mediatici, logistici); per il resto della categoria, a coltivare una vocazione alla rendita posizionale, che significa spremere il core business per distillarne i profitti a breve sino a prosciugarlo.
Da qui lo smarrimento di specializzazioni produttive e di collocazioni nelle fasce alte del mercato come catastrofe sistemica per una media economia a indirizzo esportativo; temporaneamente occultata dalle flessibilità produttive nell’area dell’impresa di taglia minore (fino all’imporsi della precarizzazione come must organizzativo globale). Insomma, i successori della prima generazione industriale del dopoguerra si sono rivelati talvolta spregiudicati speculatori, in prevalenza opachi amministratori.
Una miseria imprenditoriale/manageriale che ha campato fino a quando non si sono esaurite precedenti accumulazioni che non si è in grado di riattivare.
E la politica? L’italica classe di governo si è rispecchiata nel dirimpettaio ceto d’impresa, pure lei consacrandosi in genere a una mera gestione dell’esistente e – talora – concedendosi qualche scriteriato colpo di mano. Tanto per dire, Telecom il centrosinistra (D’Alema), Alitalia il centrodestra (Berlusconi e Passera). Dunque una sommatoria di sprovvedutezze, in cui nessuno dei protagonisti dimostrava di padroneggiare il ruolo prescritto: gli imprenditori lo sviluppo e la valorizzazione della propria impresa; i regolatori un controllo generativo. Sicché tale combinato disposto di sinergiche mediocrità consegna un Paese privo delle energie e delle scelte di medio periodo necessarie per tutelare le rare isole economiche ancora abitabili; tanto da risultare esposto ai raid dei saccheggiatori; così impoverito da essere tentato dalla vendita all’incanto dell’argenteria di famiglia. A conferma che l’economia è una branca della politica.