La crisi economica è di tipo nuovo. Idee chiarissime si può solo fingere di averle! I vecchi parametri econometrici saltano. Sta scendendo la stessa propensione al consumo, sembra. E vi sono più motivi di riflessione.

Cadono sia la domanda sia l’offerta. Non si sa quale cade di più. L’incertezza impedisce di investire là dove i prezzi relativi salgono e di disinvestire là dove essi flettono (durevolmente?).

La domanda va sostenuta con tanta spesa pubblica. Ma occorre anche gradualità. Se si eccede e l’offerta è anelastica, alla disoccupazione si unirebbe l’inflazione, per ora limitata agli alimentari. La Bce si volgerebbe alla restrizione monetaria, come è nei suoi statuti, se non nelle sue propensioni.

Gli ammortizzatori sociali sono doverosi, ma non per i molti che stanno incassando quanto avevano dichiarato al fisco l’anno prima. Il problema – che è amministrativo, non normativo – dell’evasione precede ogni ipotesi di riforma tributaria, da rinviare a tempi meno tristi.

Sono cruciali gli investimenti pubblici. Il loro moltiplicatore è almeno triplo rispetto a quelli della spesa corrente e della detassazione. Promuovono lo stesso investimento privato e la produttività, quindi anche l’offerta. Gli investimenti pubblici netti – al netto dell’ammortamento – dovrebbero andare ben oltre il recupero delle decine di miliardi in meno cumulate rispetto al picco del 2009. Le priorità sono ovvie, stringenti: sanità, sicurezza del territorio, infrastrutture fisiche e immateriali, ambiente, soprattutto al Sud. Si deve al più presto varare un piano concentrato su pochi obiettivi primari e quindi attuarlo nello scorcio della legislatura. Superata la recessione il governo Conte avrà molto di strutturale da fare affinché l’economia ritrovi la crescita di trend, necessaria anche per riassorbire il debito pubblico.

Nel 2020 la spesa della Pubblica Amministrazione va aumentata fino a 200 miliardi, se la Banca d’Italia arriva a temere una caduta del Pil del 13% (che implicherebbe un milione e mezzo di occupati in meno). Sinora ne sono stati messi in campo 75, con modesti effetti moltiplicativi perché non includevano investimenti.

I proprietari delle imprese hanno patrimoni privati di migliaia di miliardi. Devono essi per primi ricapitalizzare le proprie aziende. Lo Stato può contribuire in seconda battuta, spingendosi sino ad assumere il controllo in casi drammatici come l’Ilva, ma senza sognare l’Iri. L’Iri è irripetibile perché non vi sono né soldi, né Beneduce e Menichella, né grandi tecnici servitori dello Stato (come Sinigaglia, Bordoni, Cortesi, Obber, Reiss Romoli, Rocca). Se le imprese industriali continuano a non rispondere, e comprano banche o assicurazioni invece di fabbriche, la partita per l’economia italiana è persa.

Quanto alla copertura della spesa, gli investimenti pubblici si autofinanziano (come Keynes spiegò un secolo fa), anzi abbattono il rapporto debito/Pil (Blanchard). Per il resto è rischioso tentare di piazzare titoli a 50 anni o irredimibili, e non riuscirvi. Bisogna ricevere dall’Europa quanto l’Europa offre (Sure, Bei, Mes, Recovery Plan). Nel caso dell’Italia ammonterebbe a buona parte di ciò che occorre. Il solo Mes restituirebbe ampiamente alle strutture della sanità pubblica i 15-20 miliardi tagliati dal 2000, potenziandole ulteriormente: ricerca, posti letto, non più code, vite salvate.

I crediti a tasso zero e ancor più i sussidi europei sono vincolati a determinati utilizzi, dai governi italiani condivisi. I titoli della Repubblica – se collocati! – non hanno vincoli. Ma pagano, ai tassi attuali, interessi del 2%. Su un debito aggiuntivo che arrivasse a 200 miliardi l’onere sarebbe di 4 miliardi l’anno per svariati anni. Qualunque maggioranza governativa accorta li risparmierebbe. Il gran dibattito politico italiano su questo punto è davvero patetico, o grottesco: “Molto rumore per nulla”.