Ha ragione Norma Rangeri quando, sul manifesto del 9 ottobre, scrive parafrasando Gertrude Stein: «il territorio è il territorio» e non esiste una linea nazionale che possa imporre le alleanze ai partiti territoriali. Non è solo una questione di sfere di autonomia, ma un punto delicato di strategia politica.

Voglio partire dalla triste intimidazione istituzionale di Alfano: mentre moltissimi comuni trascrivono i matrimoni omosessuali contratti all’estero, dal Viminale giunge la nota circolare per cancellare le trascrizioni. Spesso i territori sono l’avanguardia, mentre la politica nazionale non si accontenta nemmeno di andare al traino: si fa istanza di conservazione, anzi di ripristino del passato. Non è un caso isolato. Sono molte le risoluzioni di Comuni e Regioni che vanno nella direzione di un’estensione dei diritti e anche di una sperimentazione di nuovi modelli di convivenza e uso degli spazi: penso al caso di quest’estate risolto dalle Regioni «contro» la ministra Lorenzin sulla fecondazione eterologa, ma ancor prima ai registri delle unioni civili, all’uso terapeutico della cannabis, all’introduzione dell’RU486, alle deliberazioni in materia di edilizia sociale, alle sperimentazioni sulla mobilità sostenibile o sulla promozione delle nuove forme di lavoro. Questi risultati sono frutto di mediazioni virtuose in cui la sinistra gioca un ruolo importante.

I primi 100 giorni da consigliere del Piemonte mi rimandano la medesima impressione: in poco più di tre mesi abbiamo visto approvate una mozione sulla denuclearizzazione, la richiesta di istituzione di un fondo salva-sfratti, la legge sulla reintroduzione della rappresentanza studentesca nell’Ente per il diritto allo studio universitario e lo stanziamento di 6 milioni in più per le borse di studio. Siamo anche riusciti a restituire agli studenti figli di famiglie più bisognose e alla scuola pubblica finanziamenti che negli scorsi anni, con la giunta Cota, erano andati in misura scellerata alle scuole paritarie. Questi e altri risultati non sarebbero stati possibili senza Sel, che li ha imposti all’ordine del giorno, senza quei consiglieri del Pd e delle altre forze di maggioranza che hanno lavorato insieme a noi e li hanno appoggiati o promossi in prima persona, e senza i movimenti «fuori dal palazzo», dagli studenti alle associazioni.

Esistono quindi, pur tra mille difficoltà, esperienze locali di veri «governi di cambiamento». Al governo della nazione, invece, da anni si succedono esecutivi che di «riformista», nel vero senso del termine, hanno ben poco. Penso alle riforme che cambiano la vita delle persone, estendendone i diritti e migliorandone la condizione, come sono stati il divorzio e lo statuto dei lavoratori (sì, proprio lui!). Indagini demoscopiche (senza dimenticare i referendum per i beni comuni) mostrano che in Italia esiste una maggioranza sociale a favore di politiche diverse da quelle neoliberali e neoconservatrici degli ultimi 30 anni. Esempi possibili: aumento delle tasse sulle grandi ricchezze, diritti alle coppie omosessuali, eutanasia, un vero diritto all’aborto, voto amministrativo agli immigrati e la chiusura dei Cie. Un governo «riformista» partirebbe da qui, ma il governo Renzalfano compie altre, inaccettabili scelte.

Insomma, la contraddizione fra esperienze locali di centrosinistra e «larghe intese» a livello nazionale c’è, ma non va usata contro «i territori», bensì contro l’alleanza tra Pd e diversamente berlusconiani. Ciò da cui dovremmo partire per contrastare la deriva «dell’estremo centro» renziano è proprio l’innovazione sociale e politica di esperienze come quella di Pisapia a Milano, di Zedda a Cagliari, o di Mimmo Lucano a Riace, di Vendola in Puglia, di Zingaretti nel Lazio. Solo considerando suo quel bagaglio, la sinistra, anche radicale, potrà opporsi al paradigma politico egemone in Europa e in Italia e sperare in un futuro di cambiamento che non sia sinonimo di contrazione dei diritti e precarizzazione delle vite, ma di giustizia e inclusione.

*Capogruppo Sel Regione Piemonte