La cifra di riferimento intellettuale è la grande storia della politica moderna, segnatamente nel filone del suo spassionato realismo. Mi è sempre sembrata una stranezza che la parte deputata alla contestazione di questo ordine sociale, tanto nella sua declinazione moderata e vanamente riformista, quanto nelle sue velleità radicalizzate e vanamente sovversive, si sia regolarmente, almeno in teoria, chiamata fuori da questa storia.

C’È UNA FORMULA che fa da filo rosso, permanente, nelle sperimentazioni, mobilissime, del potere moderno, come pratiche e come istituzioni. Essa dice: come ingannare il popolo? Dai discorsi cinquecenteschi sulla ragion di Stato ai deliri dei Mein Kampf novecenteschi, dalle Enciclopedie settecentesche che volevano illuminare le menti sino alle insulse democrazie buone per i millennians, di questo sempre si è trattato e di questo dunque ancora si tratta. Federico II di Prussia, di cui Sainte-Beuve ci ha splendidamente narrato «la felice mescolanza di accortezza e di ardimento, qualità rara ed ambita, che unisce e raccoglie in sé tutte le perfezioni che la natura concede quando vuol formare un grande uomo di guerra», secondo le parole che questo re-politico, parlando del fratello Enrico evidentemente attribuiva a se stesso, bene, Federico detto il Grande, avviava, 1780, un concorso per l’Accademia delle scienze, sul tema: «Se sia utile ingannare il popolo», partecipanti a livello di Condorcet e Chantillon.
Il mio problema, da pretendente saggio teorico della politica, è il contrario: se sia utile ingannare il principe. Cioè come ingannare il potere, ovvero chi, volta a volta, detiene il potere su di me e sui miei. Poi parlerò dei miei. Ma quando evoco, in questo modo, questo tema, sento scendere su di esso uno sbigottito silenzio.

QUELLI CHE SULLA POLITICA fanno filosofia si ritraggono offesi nel pensiero. Quelli che sulla politica fanno scienza non capiscono empiricamente il punto di problema. Quelli che la politica la fanno oppongono ipocritamente uno sdegnato nobile etico rifiuto. Per me, a questo punto, il tema è un altro. Ed è l’obiezione vera, che vorrei che qualcuno facesse e che nessuno fa: cioè, la drammatica presa d’atto che tutte e due quelle formulazioni classiche del problema politico non funzionano più. E i nani di oggi che non hanno saputo salire sulle spalle dei giganti sono rimasti a guardare senza capire. Perché io penso una cosa: che non è finito il Moderno, è finita la sua classicità, morta quell’età classica della modernità, quell’Antico del Moderno, che il «nostro» secolo, il «mio» secolo, il Novecento, aveva prima innalzato e poi messo giustamente in crisi, ma in crisi di sviluppo. È accaduto poi, per nostra e altrui disgrazia, che quelli che si sono trovati occasionalmente a gestire il dopo del movimento operaio – di questo stiamo parlando – non hanno saputo raccoglierne l’eredità. Troppo piccoli per quella grande storia. E il «loro» stupido tempo nuovo che ancora ci tocca vivere, ha poi dilapidato l’intero patrimonio, come i figli depravati, invece che investire la ricchezza reale accumulata dai padri, la consumano in effimeri piaceri virtuali. In fondo abbiamo attraversato, in questo lungo estenuante passaggio di secolo, una sorta di saga dei Buddenbrook, quella decadenza borghese di una famiglia aristocratica, senza il segno tragico del racconto letterario, anzi nel ridicolo delle vicende quotidiane. E consoliamoci: non è solo Italia, è Europa, è Occidente. Non c’è più chi ingannare. Non c’è più il Principe, né come Stato né come partito.

Questo è il postmoderno: la spoliticizzazione del potere politico e la neutralizzazione del conflitto sociale. Dalla pratica viene non la trasformazione, viene piuttosto l’estinzione del concetto di potere. Non perché si sia diffuso, articolato, microformato in dispositivi di comando biopolitico, come recita la narrazione di questi, i biopolitici appunto, che di fronte alla porta chiusa hanno pensato bene di buttar via la chiave. È inesatto anche dire: poteri forti economico-finanziari. Il comando è nel circolo relazionale sistemico di produzione-mercato-consumo, un corpo senza testa, che proprio per questo ha bisogno della protesi di una personalizzazione del capo, attraverso il meccanismo di democrazie sempre più demagogico-populiste. I mostri biblici, Leviathan, Behemoth, non sono stati detronizzati, sono stati secolarizzati nelle funzioni di comando dei Fondi monetari internazionali, delle Banche centrali, e giù giù delle Agenzie di rating e infine dei nuovi grandi monopoli della comunicazione mediatica che fanno riproduzione allargata di tutto questo.

E NON C’È PIÙ POPOLO, quello vero, strutturato in classi, popolo politico socialmente antagonistico. In minima parte, fatto salire sull’ascensore sociale, è stato accolto nella piccola borghesia, in massima parte, fatto precipitare giù per le scale, è caduto nel plebeismo. Al posto del popolo politico c’è il populismo antipolitico. La classica dialettica moderna, di consenso e di conflitto, governanti/governati, è ridotta da realtà di lotta a virtualità di parola. Siamo tutti veramente nella stessa barca, come giornalisticamente si dice. I governi politici sono essi stessi economicamente governati. E i cittadini cosiddetti sovrani saranno sempre più chiamati a eleggere tecnici di sistema, manutentori della macchina, funzionari della moneta, amministratori del condominio-paese e poi, nel sabato del villaggio delle elezioni, a plebiscitare qualche venditore di tappeti. Non credo che questa sia l’ultima stazione della storia. Mi eleggo da solo a pensatore della fine di una storia, non della storia. Mi chiedo spesso: ma perché, dopo secoli e millenni di vicende umane, appunto storiche, proprio in questi insipidi anni dovrebbe tutto cominciare daccapo? È forse tornato il Messia, come aveva promesso, a ridividere il tempo tra un prima e un dopo? Non mi pare. Non lo vedo. Ricordo sempre agli insopportabili cantori del «tutto è nuovo» una verità difficilmente contestabile: quelli che comandavano ai tempi di mio nonno, nato in pieno Ottocento, e morto in un ospizio per poveri, sono quelli che comandano ancora, solo imbellettati con un trucco che apparentemente li ringiovanisce, e quelli destinati a servire, come accaduto a lui e ai suoi discendenti, sono ancora lì a chinare il capo, allora in schiavitù coatta, oggi in servitù volontaria.

C’è una cosa che rimpiango. Insomma, veramente avrei voluto essere nato prima e a questo punto già scomparso. Rimpianto mitigato da quel senso di ombrosa felicità che ti invade, quando poi pensi di aver fatto in tempo a scampare al destino, che temo per i miei nipoti, di chiamarsi un nativo digitale. È una sorte singolare quella di noi venuti al mondo nei terribili anni Trenta del Novecento. Non abbiamo potuto partecipare attivamente al meglio della storia novecentesca: l’età delle guerre civili europee, con dentro la rivoluzione d’Ottobre, il great crash del capitalismo, il tentativo di costruzione del socialismo, la lotta antifascista, la Resistenza, la costruzione della Repubblica, la scrittura della Costituzione, quel momento magico del secondo dopoguerra, che ha visto per la prima volta il popolo entrare nello Stato attraverso i partiti di massa. Siamo arrivati che tutto era praticamente avvenuto. Cominciava una storia minore. Era tale la nostalgia della grande storia che quando arrivarono i favolosi anni Sessanta, ci parve di scorgere un favoloso ritorno d’epoca. Fu un generoso abbaglio, tutto soggettivo. Non era così. Ripartiva di lì in realtà una nuova pace dei cento anni, in cui siamo tuttora irrimediabilmente immersi.

QUALCUNO ha benevolmente notato il mio eccessivo uso, nella parola e nella scrittura, dell’aggettivo «grande». La cattiva abitudine ha raggiunto la punta massima quando mi è capitato di parlare di grande Novecento e di piccolo Novecento. Confesso il peccato. E voglio giustificarlo qui. Salito a coscienza con quella storia lì, dietro le spalle, e venutone a conoscenza sui libri, mi sono formato, intellettualmente e umanamente, con l’intenzione decisa, con la scelta di vita, di spendere l’esistenza mia personale a quel livello, per cambiare il mondo su quell’attrito di forze, su quello scontro di potenze, qualunque fosse il tragico degli eventi, la durezza dell’azione, la pesantezza e la grazia dell’impegno.