Nel giorno di Ognissanti del 1331 il pontefice Giovanni XXII, durante un sermone tenuto ai prelati della Curia avignonese, dove il papato risiedeva ormai da una ventina d’anni, affermò che le anime sante, dopo la morte individuale, non accedono alla visione beatifica di Dio bensì restano «nel seno di Abramo» fino al Giudizio universale.

ERA UNA NOVITÀ ai limiti dell’eresia, questa, che suscitò lo scandalo dei migliori pensatori del tempo, nonché delle autorità politiche che a loro volta si vedevano quali garanti (secondo la tradizione medievale, e poi oltre) dell’ortodossia religiosa, ossia Filippo VI il Bello re di Francia e l’imperatore Ludovico di Baviera, peraltro già in rotta col pontefice. Giovanni XXII fece almeno in parte retromarcia abbastanza presto, e in una bolla del 1334 affermò che le anime dei beati si trovavano «nel regno dei cieli e in Paradiso», al cospetto della divina essenza. Tuttavia, solo dopo il ricongiungimento con i corpi all’indomani del Giudizio universale la visione beatifica sarebbe risultata perfetta.

È un aneddoto, quello raccontato da Franco Cardini nel suo nuovo libro Le dimore di Dio. Dove abita l’Eterno (il Mulino, pp. 376, euro 28) che mostra bene quanta importanza desse la concezione dell’epoca alla visione dell’Aldilà: d’altra parte, è nel Medioevo che si definiscono gli ambiti del Paradiso e dell’Inferno, e si inventa il Purgatorio. Tuttavia, se Dio dimora nel regno dei cieli, la sua presenza è palpabile anche nell’Aldiqua; e, se questo è vero per le religioni trascendenti uscite proprio dal «seno di Abramo», ossia ebraismo, cristianesimo e islam, a maggior ragione lo è per gli altri culti, nei quali la fisicità dei luoghi e della presenza del divino in essi è essenziale. Possiamo chiamarlo il senso del sacro oppure, come in questo libro, le dimore di Dio.

DIO AL SINGOLARE perché nell’introduzione Franco Cardini ci dice che la sua cultura lo spinge in quella direzione e gli fa immaginare il Paradiso come una città: la Gerusalemme Celeste, anche se il suo cuore batte piuttosto per l’Alhambra di Granada e il giardino gli pare rappresentare la forma perfetta per ospitare il senso del sacro, almeno di quello abramitico; e la nostra cultura, cristiani o meno che si sia, ci rende certamente più familiare una chiesa romanica o gotica rispetto a un tempio di civiltà più lontane.

ANCHE SE, AFFERMA, «la dimora di Dio nel monastero buddhista di Bangkok mi parrebbe assolutamente adeguata, al pari di quella di Shangri-La o di Lhasa; né mi meraviglierei di trovarlo nel folto della selva di Tikal».

È dunque un libro dedicato alle dimore del dio della Bibbia? In parte sì, ma di fatto la concezione cristiana è stata talmente influenzata da tante altre che l’autore, grazie a una cultura storico-antropologica e letteraria profonda (che gli consente di passare da Plutarco al Flauto magico di Mozart nella stessa pagina), conduce il lettore attraverso una quantità di percorsi differenti: dagli antri di fate e Sibille alle montagne sacre, perché in questo binomio fra profondità e vette c’è uno dei percorsi del sacro che più intrigano.

MONTAGNE SACRE a volte identificabili con luoghi reali, altre immaginarie ma ugualmente e simbolicamente rilevanti, come il monte Meru, il centro del mondo per gli induisti, circondato da sette mari e sette catene montuose circolari concentriche, dalla pianta quadrata alla base e circolare in alto, unisce le due forme architettoniche fondamentali, quella terrestre e quella celeste: per questo molti templi induisti e buddhisti ripetono appunto questa forma, cubica alla base e con una cupola in alto, che del resto è adottato, con molte varianti, da cristiani, ebrei e musulmani. Le dimore di Dio non segue un percorso cronologico, dunque prettamente storico, ma piuttosto spazio-temporale ed eminentemente antropologico.

Anche se i riferimenti teologici non mancano, ovviamente dato il tema affrontato, questo è soprattutto un libro che accompagna alla scoperta dei diversi modi (non tutti, ma tanti) con cui l’umanità ha immaginato e interagito con le dimore del divino.