Il segreto ha vinto il concorso opere prime (in giuria Blaise Harrison, Mads Mikkelsen, Boris Nelepo) del festival parigino Cinéma du Reel, che si è chiuso nella Francia ancora in subbuglio per la vittoria, confermata dal secondo turno, del partito di Marine Le Pen. Il pubblico ha amato Il segreto, specie i più giovani che lo hanno a loro volta premiato confermando così una tendenza che sempre più vale in Italia, e cioè che i prodotti vitali del nostro immaginario crescono fuori dalle istituzioni, nei circuiti indipendenti, laddove è possibile muoversi, anche se a prezzo di grande fatica, con maggiore libertà.

Il segreto è firmato da Cyop&Kaf, collettivo di artisti e writers che disseminano graffiti nei quartieri di Napoli per raccontare la città. Anche il film rimanda a un’antica tradizione napoletana che vuole che gli abeti di Natale vengano raccolti e bruciati. Oggi a tenerla viva sono soprattutto bambini dei Quartieri spagnoli; per giorni vagano tra case e negozi in cerca di abeti, e li trascinano nel posto scelto. Il luogo fisico è perciò «il segreto», un terreno vuoto nel mezzo dei quartieri spagnoli dove anni fa sorgeva un palazzo, e che oggi è in mano a qualche società senza però che sia stato ricostruito nulla. Segreto appare il desiderio che li spinge a fare quel falò, sfidando le regole, che sono anche quelle della città, di una vita collettiva dove per loro sembra esserci sempre meno spazio. E segreto è anche quel sentimento di relazione che i registi riescono a costruire coi protagonisti, una reciprocità forte, rispettosa degli spazi e del rito dei ragazzi, e insieme capace di farne scorrere la vitalità e l’energia. È un film politico Il segreto nell’uso delle immagini, e nel progetto di immaginario che dispiega, un racconto della realtà partecipato, mai «a priori», aperto e col gusto dell’avventura. Come i ragazzi col loro segreto.

Il concorso internazionale ha assecondato invece la produzione nazionale; magari è solo un caso ma la giuria – Jérôme Baron, Xiaolu Guo, Elisabeth Kapnist, Nicolas Philibert – ha scelto Iranien di Mehran Tamadon (già passato a Forum della Berlinale), confronto tra il regista, iraniano che vive in Francia, e quattro religiosi iraniani sul rapporto tra spazio individuale e pubblico. Ovvero: come è possibile che lo stato religioso quale è l’Iran non da all’individuo la possibilità di una libera scelta seppure nel rispetto delle leggi, in quelli che sono i semplici gesti del quotidiano – dal velo al divieto della rete ecc, ma il fatto ). Il fatto è che la religione è legge, e perciò le cose si complicano, poi certo il diritto di replica non è concesso al cittadino, siamo in un regime, e infatti alla fine dell’amichevole conversazione durata due giorni, e andata avanti in modo molto conviviale, il regista verrà arrestato. La debolezza è qui proprio la natura programmatica della proposta che va, appunto, in una precisa direzione, mentre il regista si fa spesso mettere all’angolo dai religiosi, mostrandosi quasi non all’altezza dell’obiettivo che si è dato. Per carità, loro sono orrendi dietro alla faccia gentile del potere, ma questo lo sappiamo già, vale per ogni potere assoluto. Dal cinema ci aspettiamo qualcosa di diverso, lo scarto più che la conferma.

Filmare la realtà. C’è una ricerca politica che attraversa le immagini a partire da questa semplice considerazione. Ricerca che vuole essere una riflessione sulla materia, sul gesto stesso di filmare il mondo oggi. Il soggetto non basta più, ce lo dicevano già quarant’anni fa i cineasti portoghesi di cui la retrospettiva, dedicata alla Rivoluzione del 25 aprile che cacciò la dittatura di Salazar, ha mostrato l’opera, una rivoluzione degli immaginari permanente la loro, un fare cinema sovversivo capace di «inventare» il gesto rivoluzionario. Oggi è un film politico Carta a un padre, il nuovo lavoro del cineasta argentino Edgardo Cozarinsky, ricerca quasi intima, come suggerisce il titolo, che seguendo le tracce del padre, disegna nella memoria familiare una storia collettiva. Ebraismo, migrazioni, paure, il mare e il sentimento dell’oblio.

Ricerca di un cinema politico è anche Kamen di Florence Lazar, il film vincitore della competizione francese. Dice la regista: «I protagonisti del mio film, Hussein che cerca di ricostruire da solo una moschea, Améla che raccoglie articoli, atti di morte e prove di stupri commessi nella città durante la guerra, Lulo che dipinge Trebinje musulmana, Mustafa e Sladjana che preparano le loro tombe al cimitero musulmano di Trebinje, sono simboli di un gesto individuale e politico con cui ricomporre una memoria collettiva. E resistere così all’annullamento organizzato».

Kamen, che significa «pietra» in bosniaco, serbo e croato, ci porta infatti nella ex-Jugoslavia, sui luoghi della guerra civile dei primi anni Novanta, delle deportazioni di massa, delle violenze, degli assassinii, dove migliaia di bosniaci musulmani sono stati massacrati. E dove i nazionalisti serbi, e la chiesa ortodossa della repubblica serba e bosniaca, hanno messo in atto una sistematica cancellazione della storia, edificando un passato a loro misura.

Nel film siamo a Trebinje, lì si sta costruendo un falso villaggio «antico» che dopo essere stato utilizzato come set per il nuovo film di Kusturica, sarà trasformato in un luogo turistico. Pietra su pietra si fabbricano mitologie arcaiche nelle quali risucchiare la Storia recente, si inventano tracce di un’altra archeologia, si elevano chiese ortodosse per negare l’esistenza dei bosniaci.

La cineasta interroga nel profondo i meccanismi della società nata dal dopoguerra, in cui i conflitti profondi sembrano ancora molto attuali. E certo falsificando il paesaggio per eliminare con esso la Storia di un paese – ascoltiamo anche le voci dei deportati di Trebinje – e stabilire nuove fondamenta nazionaliste e religiose, appare non solo brutale ma anche molto pericoloso come sempre la manipolazione della storia che oscura, nell’apparenza del falso.