Il gesto estremista è quello rivoluzionario o l’utopia è quel quotidiano resistente di scelte minime ma determinate? Come trovare una geometria tra pratiche di lotta, scelte individuali e sogni collettivi? Con una prova eclatante si comincia a dimostrare qualcosa, dice il giovane Josh al capo della comune bio in cui vive e lavora. Per l’altro invece la forza più evidente del loro progetto sta in quello che costruiscono ogni giorno, nella rivendicazione di una dimensione esistenziale dei consumi e delle pratiche produttive che prova a aprire crepe nel sistema. I campi coltivati senza sostanze chimiche, l’uso moderato di elettricità, il rifiuto del transgenico, i mercati bio, la critica consapevole alla distruzione del pianeta.

L’ecologismo insomma come nuova pratica di lotta sociale e progetto politico di cambiamento del mondo (fondamentalismi compresi). A questo movimento che forse lo spazio politico più affine alle nuove generazioni, appartengono i personaggi di Night Moves, il nuovo film di Kelly Reichardt, in gara, col quale la regista continua la sua esplorazione del paesaggio americano che era già nella trasgressione western di Meek’s Cutoff (alla Mostra nel 2010).

Josh (Jesse Eisenberg) è un militante ecologista, ragazzo solitario, gli piace entrare nelle case e osservarle. Lavorare nella fattoria biologica non gli basta più, ha radicalizzato le sue esigenze e vorrebbe un’azione che corrisponda a questa sua radicalità. Dena (Dakota Fanning) ragazza bene che ha rotto con la famiglia ricca pensa anche lei che la guerriglia ecologica sia più efficace. Così come Harmon (Peter Sarsgaard), un ex-marine ora antagonista che non rinuncia però all’adrenalina dell’azione. I tre decidono di far saltare una diga idroelettrica su un lago nell’Oregon che nelle immagini di Reichardt appare quasi come una nuova frontiera. Ma l’estremismo politico non è anche quello che oggi spinge a bombardare la Siria, multinazionali complici comprese?

Reichardt dice di essersi ispirata ai Weather Underground, alla figura di Patty Hearst ma anche ai Black Panther ma anche a quell’ «eco guerrilla» che oggi attacca i McDonald’s , seguendo perciò un «filo» della radicalità, e una memoria dei «danni collaterali» non messi in conto come ci raccontava Robert Redford nel suo bel film lo scorso anno qui al Lido (La regola del silenzio). Night Moves (scritto dalla regista insieme a Jon Raymond) è un film sul terrorismo ma come lo era Ice di Robert Kramer (e con la New Hollywood Reichardt condivide sensibilità e prospettiva cinematografica): non una valutazione storica assoluta, e a priori, ma una immersione nella paranoia individuale, e in un paesaggio lì metropolitano, qui da nuova frontiera, che diviene riflesso dell’anima.

Cosa più uccide la ribellione del senso di colpa che rende pazzi, della paura che li separa e poi li rende nemici. I due ragazzi non reggono, pensavano a un’azione senza conseguenze se non mediatiche e invece c’è il morto, un campeggiatore qualsiasi. La rivoluzione e le sue conseguenze non messe in conto o dai tre. Chi cederà per primo? Il marine sa come reggere, è l’ambiguità individuale della sua posizione. Ma Joshua è diventato un traditore agli occhi del suo gruppo, Dena si ammala, qualcuno finisce in galera pure se per altre cose, la paura serve anche a questo, rende accettabile qualsiasi controllo altrimenti insopportabile lo abbiamo imparato no?

Come la solitudine in cui sprofondano peggio che in una prigione in cui pian piano si sgretola l’utopia rivoluzionaria. Nei «Movimenti notturni« i nemici si scoprono essere anche dentro, vicinissimi, pronti a tutto. Anche a cedere a ciò che hanno combattuto.[do action=”citazione”]La paranoia diventa immagine, e la fede ecologista irriducibile dei tre, lascia il posto a un thriller di potente perfezione: la macchina da presa li segue, nella preparazione dell’azione meticolosa anche nei suoi dettagli un po’ casuali. Più vanno avanti, verso l’obiettivo, più il paesaggio intorno a loro appare allucinato, e la distanza che li separa dal mondo netta.[/do]

Paesaggio americano, immerso nel mito letterario, pure quello di James Franco nel suo Child of God, in cui il superattivo regista, attore e scrittore prova a «tradurre» in immagini l’universo di Corman McCarthy. Ancora una sperimentazione del rapporto tra pagina scritta e immagine (come già nel film precedente, visto a Cannes, As I Ly Dying. Stavolta però il corpo-a-corpo appare più controllato, forse perché la dimensione letteraria non è quella monumentale del romanzo di Faulkner. L’idea però sembra sempre la stessa: far uscire letteralmente quell’anima viscerale e sporca di un’America che ritorna sempre a sé, una sorta di «Essential Killing» interiore, che nei suoi «mostri« marginali killer assassini si specchia nascondendo le proprie responsabilità (almeno dall’uccisione dei suoi presidenti).

Lester Ballard (Scott Haze) è il pazzo del paese, da ragazzino il padre si è ammazzato e lui non si è più ripreso. Gli hanno tolto tutto, la casa, la terra, finisce sempre in galera, è sporco, pazzo, armato. Eppure lo sceriffo che gli sta addosso non pensa a togliergli il fucile, quella è cosa sacra. Così come in una ballata folk senza romanticismo Ballard trova le sue donne quando sono cadaveri. Ci prende gusto e comincia a ammazzarle da sé omicida seriale e maniacale. Ma la comunità che cerca giustizia non è tanto migliore, e quel male radicato, di possesso della terra (per cui si deve esportare la democrazia ammazzando gli altri dopo il genocidio fondante casalingo) finisce sempre per rispuntare fuori dalle viscere della terra stessa. È qualcosa di inestirpabile, una malattia estrema, un incubo horror scassato (forse pure troppo) di cui è facile perdere il controllo.