Le settimane della moda per l’autunno/inverno 2017-18 stanno volgendo al termine. Archiviate New York e Londra con pochi clamori, Milano appena conclusa e Parigi in conclusione danno il polso della moda che sarà. L’interrogativo sul futuro, sembra sia stato un po’ messo in sordina dalla preoccupazione sul presente. Infatti, il trend più condiviso da stilisti e designer è la reazione a un presente che non viene letto con le superficialità della vita politica così come si sta svolgendo nel mondo ma con l’apprensione di chi capisce che questo presente che produce poco di buono condizionerà pesantemente il futuro.

 

 

 

 

 

I temi sono anche abbastanza insistiti e si va dall’analisi del significato di genere e delle diversità a una lettura del femminismo che si presenta come argomento di discussione urgente perché, dice la moda, l’attacco ai diritti delle donne è un attacco ai diritti delle persone.
Ora, nel mondo gli attacchi della reazione e della conservazione contro i diritti delle persone sono tantissimi, ma dalla moda non si pretende la lotta politica tout-court ma almeno il richiamo dell’attenzione sui temi più sensibili. In tutto questo, gli abiti non possono restare in secondo piano perché, come ricorda il decano Giorgio Armani, fra cento anni guardando le foto di oggi si dirà «vestivano così perché erano così», come del resto storicamente è sempre successo. E basta andare alla National Portrait Gallery di Londra per assegnare i personaggi dei quadri alle loro epoche osservando i vestiti che hanno scelto per farsi ritrarre.
Quindi, la domanda è: che cosa ce ne facciamo dell’analisi sul futuro se non sappiamo raccontare il presente? Il quesito è universale e non dovrebbe toccare solo la moda ma tutte le arti creative comprese il cinema e la musica, nonché la politica e l’informazione.

 

 

 

 

 

Il populismo che ha conquistato l’opinione pubblica mondiale, per esempio, allarma molto la moda e gli appelli al femminismo, che già avevano avuto un anticipo lo scorso settembre nell’appello di Maria Grazia Chiuri al suo debutto come direttrice creativa di Christian Dior con l’invito alla lettura di We Should All Be Feminists di Chimamanda Ngozi Adichie (in Italia edito da Einaudi) stampato anche sulle T-shirt, passano dalla riflessione di Miuccia Prada che dice «Siamo ancora qui? Non so neanche se è vero che le donne amano la moda perché vogliono sedurre, come mi disse una volta Louise Bourgeois. Io non ne sono sicura. Sedurre è un obbligo?» a Donatella Versace che è preoccupata dal fatto che la società italiana è poco reattiva di fronte al problema e precisa dedicando «questa collezione all’inclusione e alla partecipazione» cioè, alla militanza.

 

 

Se qualcuno può sospettare che l’argomento muove una sensibilità solo femminile, deve ricredersi perché anche dagli stilisti maschi arriva una presa di posizione su temi altrettanto sensibili. Domenico Dolce e Stefano Gabbana, per esempio, parlano di famiglie inclusive, di famiglie che nascono e convivono per scelta, al di là di legami e formule di unione. Come da Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, arriva la riflessione sulle reali potenzialità insita nelle alternative che pure esistono. Con abiti che sovrappongono epoche e sensazioni, Michele suggerisce che il superamento di questa modernità che appare così sorpassata perché troppo piena dei vizi della sopraffazione, dell’arroganza, della prepotenza, del disvalore della definizione a ogni costo sta proprio nel valore dirompente della diversità.

manifashion.ciavarella@ gmail. com