Siamo al ridicolo. O forse peggio. Perché i segnali che arrivano in questi giorni intorno al festival di Roma sono un po’ più che la solita polemica locale. Cominciamo da Tortora. Una ferita italiana, il film su Enzo Tortora che ripercorre il caso del conduttore televisivo condannato da innocente per associazione a delinquere, in uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani degli ultimi decenni. Lo firma Ambrogio Crespi, fratello di Luigi, l’ex sondaggista di Berlusconi. Il festival lo ha rifiutato. Legittimo. Non gli è piaciuto come presumibilmente altre centinaia di film. E nella risposta ufficiale di ieri, i curatori hanno spiegato che la selezione è solo per film cinematografici e non televisivi. Legittimo anche questo.

Ma no, la cosa non si tollera, e diviene un «caso politico». I primi a intervenire sono i radicali, che hanno sempre definito Ambrogio Crespi «un nuovo Tortora». Crespi infatti è stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio, nell’ambito di un’inchiesta su una presunta compravendita di voti, per cui ha passato 200 giorni in carcere. Poi la coalizione di governo: il centrodestra (tra cui l’ex sindaco della capitale Alemanno) e il centrosinistra, 25 deputati del Pd guidati da Michele Anzaldi che attaccano il festival, e il direttore, Marco Müller, scrivendo al presidente della Camera, Laura Boldrini per chiedere di rimediare all’esclusione con una proiezione alla Camera.

La questione riporta al «peccato originale» del festival romano, inventato da Walter Veltroni e da Goffredo Bettini, ovvero la politica. Che in Italia – come altrove ma forse di più – fa e disfa, sceglie e decide al di là delle competenze e delle professionalità dei singoli. Müller è sicuramente uno dei migliori direttori di festival che ci sono in giro, ha un progetto di cinema , e conseguentemente a questo, col suo comitato di selezione ha scelto i film che vedremo tra qualche giorno. Si potranno criticare, si potranno amare ma è un altro discorso. La sua libertà di programmazione dovrebbe essere il più ampia possibile.

Ma, appunto, il festival romano è sotto stretto controllo della politica, che lo considera una sua creatura, passando sopra al direttore in carica. É rischioso, non produce frutti, svilisce la professionalità e le competenze, oltre a riecheggiare davvero spiacevoli memorie. Ci piacerebbe, invece, che la politica si preoccupasse un po’ di più della vita culturale nazionale, e nello specifico della capitale, dove nei primi mesi della nuova giunta Marino le cose su questo piano sembrano un po’ in fase di stallo (la crisi economica non può essere la sola spiegazione).

Ieri, poi, è esplosa una nuova polemica. Stefano Mencherini, regista del film Schiavi, ha lanciato la sua protesta in una lettera aperta contro Müller, che all’ultimo momento ha escluso il suo film dalla programmazione. Lo ripetiamo: è una cosa del tutto normale, accade in ogni festival del mondo ed è anche normale che ci si arrabbi o si rimanga male. Siamo sicuri che sono tanti i registi convinti dell’importanza della propria opera furiosi contro questo o quel festival che magari sbagliando non li ha presi. Siccome però funziona così, non si capisce perché contro questo festival, e contro il suo direttore, questo diventi un caso. Non ci sarà qualcosa di altro?