L’evento è un caso, ciò che è avvenuto o può avvenire. Non c’è nel significato progettualità, ponderazione, scientifica programmazione. Non è un caso quindi che oggi il sistema culturale italiano sia un susseguirsi di eventi.

NON VORREBBE essere un evento ma una disamina amara il libro scritto a quattro mani da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione (Contro le mostre, Einaudi, pp. 166, euro 12). I due autori si dividono i compiti, concentrandosi Montanari sui legami tra opere d’arte e territorio, tra ricerca e possibili mostre da essa derivanti, mentre Trione, in quanto curatore di mostre e di Padiglioni Italia a recenti Biennali, accompagna chi legge nella quotidianità del disastro di migliaia di inutili esposizioni che flagellano le pigrizie indotte negli sguardi italiani. Un libro che va letto ponendo al centro il tema delle interruzioni, quella della trasmissione dei saperi, della trasmissione della conoscenza, del rapporto tra opera d’arte e territorio, del suo rapporto con la storia, della relazione ponderata e dialettica tra arte e critica e, infine, quella tra mostre e studi.
Tutte interruzioni che non possono essere colte come segmenti sparsi, ma come facenti parti di un attacco di sistema alla cultura, trasformata ormai da lungo tempo in industria culturale al fine di ridurre il sapere critico – soprattutto quello visivo perché più immediato e proprio per ciò più pericoloso – in accettazione passiva.

INSOMMA, RICORDARE Adorno e intendere come la cultura sia diventata un loisir superficiale e accattivante, con cui è facile essere sempre d’accordo e come in questo accordo vi sia il germe dell’anestesia, dell’autoconsumo obbediente. Ma un pubblico così deve uscire anche da un sistema di formazione devastato dove, non a caso, la Storia dell’arte scompare dalle materie curriculari.
Un esempio, nulla richiede più impegno, complessità e fatica anche dei sensi per intendere un’opera d’arte, il moltiplicarsi di mostre a «realtà aumentata» ottiene un paradossale effetto di deprivazione dell’autonomia e al contempo della sinestesia dei sensi che l’arte crea per suo statuto, proponendo al visitatore vagamente stordito uno e un solo modo di usare i sensi, insomma un Invalsi della percezione dell’arte. La realtà aumentata si sostituisce così all’aumento di sapere che una mostra avrebbe l’obbligo di proporre.

PUR TUTTAVIA, non si può chiudere questo libro con una nostalgia passatista, nella contemplazione di screpolature divenute frane, per dirla alla Gramsci, ma come possibile progetto che voglia almeno provare la riconversione in cultura di ciò che è stato trasformato in comunicazione e intrattenimento. Avere il coraggio di riscoprire il senso di essere intellettuali nel «complesso generale dei rapporti sociali».
Trione dedica uno dei capitoli al proliferare di biennali e alla biennalizzazione delle collezioni museali, accomunando i due fenomeni con il rischio di un atteggiamento liquidatorio che si appunta su elementi che non fanno giustizia alla complessità delle molte discrasie che pure queste pagine sottopongono al lettore. La diffusione del «paradigma espositivo» delle biennali a livello planetario non è di per sé un male, anche perché spesso rideclinato secondo scelte curatoriali non sempre tutte omologate, ignoranti e replicanti come sostiene l’autore, e a patto che le moltissime biennali sorte negli ultimi anni sappiano tenersi sempre lontane da una sorta di facile neocolonialismo che potrebbe cogliere critici e curatori.

SOPRATTUTTO, I PERICOLI che questo tipo di mostre corrono non sono legate davvero alla labilità delle tecniche adottate dagli artisti, alla scarsa volontà di perseguire l’eternità attraverso le opere, alla varietà delle persone che le frequentano, uguali in tutto e per tutto, a quelle che incontriamo in qualsiasi altra iniziativa che abbia il volto dell’evento. Appellarsi poi al «ritorno a Vasari» non sembra privo del rischio di quella centralità del paternalismo critico che, in modo definitivo, Carla Lonzi condannava parecchi decenni fa.

BEN DIVERSO è il problema che la biennalizzazione delle collezioni museali pubbliche pone e che entrambi gli autori affrontano e sviscerano. La perdita di vista di quale ruolo debba assolvere un insieme di opere d’arte quale ne sia stata l’origine e la progressiva formazione, arreca un danno gravissimo alla possibilità didattica, storiografica, epistemologica che quell’insieme di opere d’arte recano.
Il cadavre exquis era nato come un gioco, non certo come sistema museologico per rendere agibile a ciascuno la comprensione delle opere d’arte. Altrimenti vi sarà il rischio, per tutti, che il cadavere, seppur molto allegro, sia quello del rapporto tra arte e conoscenza.

 

 

Foto di Inexhibit