Non è un libro sui comandamenti, Dieci di Elena Loewenthal (Einaudi, Torino, pp. 106, euro 12), o almeno non è solo questo. Ci sono innanzitutto altre parole da ascoltare prima di quelle dettate a Mosè, per esempio le prime in assoluto: quelle di Dio ad Adamo, il fatto di terra, e quelle di lui, che dice «io» per la prima volta nella storia e, non a caso, solo dopo aver trasgredito. Il principio di individuazione nasce dalla libertà di dire no al Creatore. Già, perché ci fa notare Loewenthal, anche il Signore esordisce con «io» dando inizio al decalogo, ma non è il primo: lo ha battuto sul tempo Adamo, che si accorge di sé dopo il peccato.

È IN QUESTO GIOCO di richiami tra brani diversi, in questo rimbalzare di parole chiave che le prescrizioni incise sulle tavole di pietra prendono vita; Dieci è infatti uno splendido esempio di lettura ebraica della Bibbia, un midrash si direbbe in termini tecnici: e questo è il maggior pregio del libro, soprattutto in un paese di tradizione cattolica dove si è abituati a tutt’altro modo di fare esegesi, di interpretare le Scritture.

UN MIDRASH non è un’analisi filologica di un brano e nemmeno una lettura moraleggiante: non si preoccupa di studiare la genesi di un testo, rintracciarne le fonti o separarne gli strati che nei secoli si sono sovrapposti, né vuol adattarlo a una dottrina prestabilita. Un midrash è piuttosto un incontro – talvolta uno scontro – profondo e appassionato con la Scrittura, quasi un corpo a corpo con lei senza esclusione di colpi, poiché la parola è viva, è fuoco e martello che spacca la roccia, come dice il Signore al profeta Geremia: il commento raccoglie i frammenti e le scintille prodotti dal dire divino e quanto più è bravo il commentatore, quanto più variopinti saranno i fuochi d’artificio che ne ottiene. Dunque non ci si aspetti da Dieci un’esegesi o una lezione di morale.

«DIECI» È UN SONDARE le parole interrogandole e uno scavo nelle emozioni degli attori in gioco: Mosè con la sua scarsa autostima e lo scatto d’ira con cui spacca a terra le tavole davanti al vitello d’oro, rischiando di mandare all’aria tutta la storia dell’alleanza; il Dio passionale al punto da minacciare punizioni alle colpe dei padri persino sui figli dei figli dei figli, ma che non esita a perdonare il tradimento e si piega, Lui, il Signore degli eserciti, a dettare una seconda volta le sue leggi a un Mosé troppo impulsivo.

Quella di Loewenthal è un’indagine che si infila nelle crepe del testo, nei silenzi del non detto, che sono poi gli spazi di libertà di chi legge (o ascolta) e grazie ai quali quelle parole antiche suonano sempre nuove. Ci eravamo mai accorti, per esempio, che la prima domanda della storia è Dio a porla e, lungi dall’essere inquisitoria, è piuttosto un tenero e struggente cercare la creatura prediletta, improvvisamente nascosta: dove tu?
Sapevamo che lo smarrimento di generazioni di interroganti, incapaci di rintracciare Dio nei drammi della storia, è stato prima di tutto quello del Creatore di fronte alla libertà che lui stesso aveva deciso di regalare all’uomo?
E anche le dieci parole – così le chiama l’ebraico e così anche il greco decalogo – sembrerà al lettore di sentirle per la prima volta, soprattutto quelle che la tradizione cristiana ci ha tramandato in modo diverso da come suonano nel testo.

FINCHÉ il sorprendente ultimo capitolo viene a dirci che però i comandamenti non sono tutto, non solo perché c’è altro in seguito – il resto della Torah, e per il cristiano il Secondo Testamento – ma nel senso, si spinge a notare Loewenthal, che sono usciti già manchevoli dalla bocca di Dio. Manca, a suo parere, qualcosa di più profondo sul male che l’uomo può fare all’uomo: undicesimo, non causare dolore inutile, vano.
Gli ebrei, abituati ai midrash, non temono una lettura creativa e persino sfrontata della Scrittura, si permettono pure di aggiungere e perfezionare: e di fronte a un ascolto così intelligente delle pieghe profonde e degli spazi bianchi della parola, l’Altissimo stesso non potrà che sorridere compiaciuto.