L’altroieri, 11 luglio, è successo. Con la proiezione del documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, L’infinita fabbrica del Duomo, all’interno del Duomo di Milano si è avverato il sogno irrealizzato di Antonello Gerbi, che nel 1926 immaginava uno schermo cinematografico capace di rinascere pala d’altare per le liturgie dei tempi nuovi.

Dato il contesto, che poi è il soggetto del film di D’Anolfi e Parenti, non suonerà inopportuno se per affrontare il discorso prenderemo a prestito suggestioni e termini derivanti dall’arte sacra; del resto già Francesco Casetti nella sua indagine sulle «sette parole chiave» per decifrare il cinema a venire – La galassia Lumière – individua tra queste la voce «icona». Ed è proprio risalendo al significato della locuzione che matura il senso dell’operazione: l’icona è una rappresentazione che possiede una somiglianza intrinseca con il raffigurato; secondo il pensiero bizantino, poi, questa conformità va intesa in termini di partecipazione: l’icona riverbera l’essenza dell’originale, che dunque continua a vivere nella copia.
Ecco quindi spiegata l’intenzione di questa proiezione: mettere in bell’evidenza – d’altronde, nella religione, per visione si intende una comprensione immediata, chiara, diretta – l’idea di continuità, peraltro espressa anche nella penultima sillogistica didascalia del film: «Sicché, scolpito in questo grandioso monumento, noi vediamo il racconto di tante generazioni, ma anche il segno profondo della natura che impiega 10.000 anni per trasformare un deposito di conchiglie in una vena di marmo rosa. Il Duomo è cresciuto da una conchiglia, le conchiglie sono cattedrali».

Ma la proiezione all’interno del Duomo muove anche altri pensieri che agitano la riflessione attorno all’audiovisivo, il cui statuto è sempre più incerto; un’instabilità ben raccontata da nozioni quali cinema «esposto», cinema «installato», fino al cinema «rilocato»: declinazioni attraverso cui si esprime un ripensamento della prassi cinematografica che pone al centro del proprio ragionamento la «riscoperta dell’esperienza». Possiamo dire che D’Anolfi e Parenti hanno davvero compiuto un’operazione di «ri-locazione» del proprio film, in una composizione nuova e in una nuova sede, fornendo percorsi di lettura inediti e permettendo scansioni di visione del tutto diverse: dalla forma monocanale il documentario si è moltiplicato su 6 schermi di differenti dimensioni distribuiti lungo il corpo della cattedrale: 4 nella navata centrale, con il più grande a fare, per l’appunto, da pala d’altare; e uno per ciascuna delle immediate navate laterali.

Questa versione in chiave installativa di L’infinita fabbrica del Duomo sembra rispondere a quel bisogno diffuso di espressività richiesto dallo spettatore, sempre più interessato al «fare» piuttosto che all’«assistere». E il cinema, a differenza di altri media, offre invece un’occasione di assistere ad uno spettacolo, ma non di farsene protagonisti, se non virtualmente. L’operazione di rilocazione tenta di offrire una risposta all’emergere di questo bisogno, provando a ragionare sulla visione spettaoriale come dinamica attiva e performativa: è un’esperienza che obbliga a interrogarsi su quanto sta capitando, a confrontarsi con qualcosa di effettivo e insieme ad aprirsi al possibile, a ripercorrere qualcosa che abbiamo già provato per scoprire poi un inaspettato. Dunque il nuovo fare espressivo offerto allo spettatore è legato al fatto di vedere «quel» film e in «quel» modo. Un qualcosa che costituisce anche un tratto identitario, in fondo scegliere un film è sempre più una dichiarazione di appartenenza.

Quanto avvenuto l’altra sera può perciò essere letto anche in termini di performance: al pubblico si è chiesto, in un certo senso, di disbrigarsi piuttosto che adattarsi a istruzioni prefissate. Questo può fare l’esperienza filmica – che è confluenza di elementi diversi: film, ambienti, contesti, sensibilità – per rispondere ai nuovi appelli che gli provengono dallo spazio circostante: cambiare forma per adattarsi ai tempi.