Da queste stesse pagine, all’epoca dei fatti, erano partite condanne senza appello verso la discomusic, nuovo oppio dei popoli. Nell’ottica del ‘77 La febbre del sabato sera era «l’ultima astuzia delle multinazionali»; John Travolta un demiurgo corruttore dei giovani: «Dopo la droga e le religioni, adesso li vogliono ipnotizzare così». È vero che in quei giorni l’imperialismo delle major americane di cui la disco era emanazione appariva ancor più intollerabile; e certo molti artisti avevano ragione a scagliarsi contro i progetti a tavolino con cui i produttori discografici si sbarazzavano di loro. Tanti altri, però, guardavano più il dito che la luna.
Culturalmente miope, molta critica reputava rock e canzone d’autore i soli idiomi adatti a trasmettere valori di sinistra; derubricando i riti collettivi della disco — e del ballo tout court — a capriccio borghese, si finì per perdere di vista i connotati sociali di una musica nata come espressione delle emarginate comunità afroamericane, latinos e omosessuali. Poi la stessa industria discografica che l’aveva creato sancì la fine del fenomeno, anche per scongiurare un sopravvento di quelle minoranze.

L’ORIGINALISSIMO progetto Marxist Love Disco Ensemble parte proprio da qui, immaginando uno sviluppo storico diverso, in cui quel genere non è più simbolo di banalità capitalistica. Il gruppo italo-sloveno-croato guidato da Paolo Volkov disinnesca con sublime operazione linguistica tanti consunti legami tra musica e parole: i groove ipnotici della dance, un tempo vettori di leggerezza, ora si accompagnano a testi politicamente e filosoficamente impegnati, emancipati a loro volta da certe cupezze cantautorali che troppo spesso ne mortificavano il messaggio musicale. Pop, boogie e nu-disco abbracciano lotta di classe e materialismo storico, come in quel famoso incontro tra l’ombrello e la macchina da cucire. Distribuito dalla britannica Mr Bongo, tenace fucina di musica e cinema, l’album di debutto MLDE è una gioiosa ucronia, che attraverso esperimenti metalinguistici restituisce al piano espressivo senso e fisicità: corpi danzanti su timbri reali e nastri analogici.

Ogni suono un’allusione. Se il pulsare dei bassi guarda al boogie anni Ottanta e il canto di Volkov indica Orange Juice e Chaz Jankel, le armonie vocali sono un intenzionale omaggio ai cori russi.

OGNI SUONO un’allusione. Se il pulsare dei bassi guarda al boogie anni Ottanta e il canto di Volkov indica Orange Juice e Chaz Jankel, le armonie vocali sono un intenzionale omaggio ai cori russi. Un’internazionale nella cui agenda convivono avanguardia e retrò: «Potremmo ballare, disco feel so good, marxismo sociale liberami tu», recita il brano che fin dal titolo ne è Manifesto. Il quale, celebrando la disco come strumento di progresso, esorta a «Fabbricare inni per i cittadini che ballano». Inni come quelli di Hues of Red — «Liberty, Unity, Solidarity, Fight today!» — e Material, che proclama: «From politburos, kominterns, we’ll take divine and overturn». Ma oltre i cori da corteo ci sono versi carichi di forma e valore in Dust, sul cui ritmo incalzante «L’inimicizia nuota con il capitale in fonti di saliva e di peccato», mentre la voce sensuale di Brumaire mette in guardia dal revisionismo e dall’adozione di immagini del passato discussi da Marx nel Diciottesimo brumaio di Luigi Bonaparte.
Adottare — o piuttosto adattare — immagini del passato, è in fondo la cifra stessa di Volkov e compagni, consci dell’effetto spaesante dei loro accostamenti. Ma il loro è un revisionismo surreale, provocatorio, utopico. Una realtà plausibile in cui si incontrano il Lucio Dalla redentore di Travolta — «nel cui mondo c’erano emarginati veri» — e il Luigi Nono che imbevendo di impegno politico la sua Musica Manifesto avvertiva: Non consumiamo Marx.